Non è mia intenzione fare riflessioni esistenziali sulla finitezza della vita; mi riferisco, invece, proprio alla parola ‘fine’, The End, così come compariva una volta nell’ultima inquadratura dei film, con grafica elegante, accompagnata da una musica appropriata, a suggerire la conclusione della storia secondo tappe regolamentari di sviluppo narrativo. Oltre al congedo formale, c’era poi una serie di convenzioni sui contenuti, su come la vicenda dovesse andare a finire: il celebrato happy ending della commedia hollywoodiana, o la morte a riscattare crimine e peccato dei protagonisti del nobile noir. Un andamento prevedibile e a suo modo rassicurante.
Oggi la scritta Fine non si usa più, a malapena per sancire l’epilogo ci sono i titoli di coda che scorrono a luci già accese in sala, con il pubblico ormai in piedi come se dovesse scappare da scuola (e la mia irritazione solitaria e impotente perché non li posso leggere in pace).
Il concetto di fine è, poi, completamente scompaginato nelle ‘serie’ televisive, programmate con piccoli espedienti per troncare la messa in scena allo scadere di ogni puntata, a stuzzicare la curiosità dello spettatore e ad invogliarlo a continuare a guardare ancora. La lunghezza e soprattutto la serialità -lo sappiamo- offrono al pubblico una sensazione di compagnia, di antidoto alla solitudine, talora perfino di innocua dipendenza. Per contro, secondo lo spirito del tempo, ogni episodio è corredato da riassuntini per consentirne eventualmente anche una visione autonoma, distratta o intermittente. La durata e il numero delle varie stagioni non è quasi mai nettamente prevista dalla sceneggiatura iniziale, ma dipende dal gradimento del pubblico; di modo che si articola non secondo le ragioni della creatività degli autori, ma di quelle del mercato. A margine si è inoltre sviluppato il fenomeno dei vari sequel e prequel (sembrano nomi di psicofarmaci) che -come ad esempio nel caso del fortunato Breaking Bad, del non meno avvincente Better Call Saul, con in più una codina di film singolo El Camino (e ancora non è finita)- di fatto rimangono potenzialmente aperti a ulteriori sviluppi. Appunto, senza fine.
Insomma, il criterio del finire si è fatto sempre più fluido, opinabile, provvisorio; non lineare ma circolare. E parallelamente la struttura narrativa non si conclude né sullo schermo né nella nostra mente. Così la nostra pigra corda emotiva non è esposta al ‘lutto’ della fine definitiva e della separazione.
Non sono così categorica da pretendere di tracciare una distinzione netta tra “ieri” e “oggi”. Sappiamo bene che la divisione in puntate è stato il pepe del romanzo d’appendice; che la reiterazione è il canone delle favole di ogni tempo e che le eterne, infinite variazioni sul tema sono l’anima immortale del mito. Restando nell’ambito dello spettacolo, anche nel cinema degli anni ’50 e ’60 capitava di sfruttare il successo di un film producendo e distribuendo “Il figlio di …” o “Il ritorno di …”. Così come i frequenti remake di piccoli film intelligenti, poco fruttuosi per la distribuzione internazionale, ri-confezionati negli Stati Uniti con volti e linguaggio standard, possono essere considerati l’equivalente della tradizionale rimessa in scena sui palcoscenici dei classici teatrali di tutti i tempi. Per fare un esempio recente, Dopo il matrimonio del 2020 replica l’omonimo film di Susanne Bier del 2006, restando fedele alla vicenda, ma con uno scambio di genere del protagonista, da Mads Mikkelsen a Julianne Moore. Raramente il rifacimento è migliore dell’originale, anche se garantisce migliori incassi. Il mio interesse peraltro non è tanto sul piano estetico, quanto sul modo in cui i vari prodotti si stratificano e si accumulano nella nostra mente. Mi sembra infatti che il processo secondo il quale guardiamo e godiamo di serie e film rifletta e moduli il nostro senso intrapsichico della temporalità e della memoria. Penso anche alla sempre più significativa funzione del montaggio, insofferente di lunghe inquadrature o di estenuanti piani-sequenza (concessi solo ad opere “d’autore”). Tutti i prodotti visivi più correnti sembrano intolleranti, pena la noia, del soffermarsi della macchina da presa su un dialogo, un ambiente, un volto per più di cinque secondi. E in effetti sembra che tutti siano oramai sintonizzati su tempi brevi di percezione e di attenzione, secondo un ritmo frammentato senza sequenze obbligate o nessi logici, che procede piuttosto per “libere dissociazioni”. Viene in mente, per analogia, la tanto contestata diagnosi di “deficit di attenzione e iperattività” (ADHD) che decretava ‘a pioggia’ una certa neuro-psichiatria infantile di fine millennio. Lascio a latere la mia polemica contro chi pensava di trattare come patologia e di curare con una pillola quella che a mio avviso è una modalità di funzionamento dell’apparato psichico di portata ben più ampia e complessa. Comunque, quella fugacità d’attenzione oggi è diventata ‘normale’ ben oltre l’età pediatrica.
Ovviamente, niente di tutto questo è rilevante sul piano estetico. Ci sono tante opere del passato onestamente brutte e tanti eccellenti prodotti contemporanei. E soprattutto -va sottolineato- non dobbiamo pensare ad un nesso di causa-effetto (tipo ‘la televisione che plagia la mente dei bambini’); piuttosto si intravede un meccanismo di reciprocità e circolarità tra una modalità di “rappresentazione intrapsichica” e la rappresentazione scenica.
Molto interessante, a proposito dell’organizzazione mentale della temporalità, l’uso della tecnica dei flash back e flash forward (anche qui niente di nuovo; la retorica classica prevedeva analessi e prolessi), che però oramai è diventata endemica, con un continuo avanti e indietro di alternanze tra il ‘prima’ e il ‘dopo’, spesso senza concedere a chi guarda l’aiuto della nebbiolina flou a segnalare il salto narrativo. Talora un episodio del passato serve semplicemente a spiegare le vicissitudini del presente; ma ancor più interessante è quando -all’opposto- è un evento presente a risignificare a posteriori un fatto del passato.
Posso invocare ad esempio la scrittura di Fernando Aramburu che in Patria (un libro potente che pare diverrà presto anche un film) racconta più volte lo stesso episodio mutando dettagli e punto di vista, riuscendo così a farci comprendere come il drammatico sviluppo della storia e la sua tragica conclusione lo obblighi a ripensare e a rivalutare nella memoria le vicissitudini remote. In campo cinematografico cito anche la mirabile sceneggiatura de Il passato di Ashgar Farhadi; o la più recente mini-serie The Undoing, nella quale la riproposta di brevi flash back di momenti sereni, assume un sapore sinistro in ragione di ciò che oramai sappiamo nel presente. Troppe altre volte invece -sullo schermo e sulla pagina scritta- il saltellare nel tempo è solo un espediente per movimentare storielle che nascondono la loro mediocrità facendo confusione.
Da tempo rettilineo, circolare, ellittico arriviamo dunque a un tempo che si muove a spirale o come un nastro di Moebius.
Il paradosso è che tale complicata modalità di funzionamento della temporalità e della memoria è molto più simile ai processi psichici di quanto non sia la convenzione lineare. In psicoanalisi si parla appunto di effetto retroattivo (ápres coup, Nachträglichkeit), per indicare la tendenza dell’apparato psichico a risignificare a posteriori eventi del passato, avvenuti in epoche nelle quali la mente non era ancora in grado di conferirgli un senso adeguato. L’esempio classico è quello di una separazione subita nell’infanzia, avvenuta in modo apparentemente innocuo e indifferente, che rivela il suo contenuto traumatico solo molti anni dopo; in occasione di un nuovo evento attuale ‘minore’ che -grazie alla raggiunta maturità psichica e al lavoro analitico – si carica di tutto il dolore e l’angoscia a suo tempo non vissuto e non elaborato. Il passato condiziona il presente, ma a sua volta il presente può determinare il passato, costituendolo di significato. Così pure i nostri ricordi non sono un archivio che registra ordinatamente eventi successivi; ma una ri-trascrizione di tracce mnemoniche che continuamente si modificano in ragione di esperienze successive e che per di più possono coesistere in diverse versioni a vari livelli di coscienza.
Ancora una analogia. E’ purtroppo raro che oggi si conducano analisi tradizionali, della durata di anni e a ritmo serrato, che infine giungono alla loro conclusione naturale e al congedo tra terapeuta e paziente. Assai più praticate oggi le cosiddette “psicoterapie brevi”, il più delle volte insufficienti a sciogliere i nodi profondi; di modo che sfociano in nuove riprese di cura, in una sorta di trattamento seriale a vita. D’altronde, una fine prevede un inizio, un processo, l’elaborazione di un conflitto, una sintesi e poi una conclusione (magari banale) e una costruzione di senso (magari deludente). Non è strano che in una cultura come la nostra, che non accetta il senso del limite -tanto sullo schermo, quanto sul lettino- si preferisca la fluidità, la non responsabilità dei finali aperti indeterminati.
Sullo sfondo c’è inevitabilmente il problema della fine assoluta, della morte; rispetto alla quale in ogni cultura e in ogni tempo gli umani si sono arrabattati a tenere a bada l’angoscia con un qualche meccanismo psicologico di difesa -misticismo, idealizzazione, diniego …- ai quali oggi si aggiunge un ulteriore espediente: la dilazione.
FINE
Simona Argentieri psicoanalista didatta Associazione Italiana di Psicoanalisi/AIPsi
da Cinematografo aprile 2021