‘Primo Sangue’ di Amélie Nothomb
Recensione a cura di Barbara Amabili
“Mi portano davanti ad un plotone di esecuzione. Il tempo si dilata, ogni secondo dura un secolo più del precedente. Ho ventotto anni”.
L’autrice lascia in sospeso l’esecuzione e le relative motivazioni, ci catapulta nell’angoscia, nell’attesa della morte in un tempo in cui “ogni istante è divisibile all’infinito”. Un senso di sperdimento accompagna il lettore mentre, attento e affascinato come l’ospite nuziale (Coleridge) si ritrova rapito dal sé narrante del giovane. Si attraversa la storia familiare segnata dal trauma precoce per la perdita del padre quando il figlio ha otto mesi: epoca in cui l’oggetto esterno si fa reale.
Affiora l’immagine di un ragazzino in movimento, fin dai “primi balbettii” della propria consapevolezza, che spinge verso l’esistere in opposizione al lutto con “un’insolita gioia di vivere. Insolita perché insolente: “attorno a me regnava la tristezza”.
Nella trama dei ricordi si delinea l’espressione dura del viso di una madre sfuggente che si apre ad un sorriso solo in alcune foto precedenti la morte del marito o, inautentico, nel ritratto in cui posa “felice” con il figlio di quattro anni seduto sulle sue ginocchia. Una madre che sempre disillude, impegnata ad evitare il possibile incontro con il maschile nel figlio. Il quadro, in cui “la rappresentazione funzionava meglio di lei” e da lei mai apprezzato, fu lasciato a casa dei nonni materni a cui fu affidato anche il bambino che, vezzeggiato dalla nonna, rischia di non incontrare mai la spontaneità dell’affetto.
Il nonno, alto ufficiale dell’esercito belga, si fa terzo, apre alla separazione ed impone l’iniziazione. Il nipote ha sei anni: tagliati tutti i boccoli, dovrà trascorrere le vacanze estive in campagna nel castello con la famiglia del nonno paterno, barone decaduto. Il lettore apprende solo poco prima del viaggio il nome e il cognome del bambino: lo si nomina appena è possibile individuarlo fuori dal movimento fusivo del sostituto materno riparatore.
Si apprende così che ha lo stesso cognome dell’autrice. Il giovane che abbiamo lasciato in attesa della morte è Patrick, il padre di Amelie Nothomb.
Il lettore partecipa al viaggio verso la roccaforte, “roccadebole” appare al bambino appena ne scorge la sagoma e il colore “… un arancione scoiattolo slavato che, alla luce del sole, si tingeva di sfumature ocra rossa e pesca settembrina“. Avrebbe passato due mesi con i tanti, mai conosciuti zii, figli del “Nonno”, “cenciosi e violenti”, che gli si avventarono appena arrivato in cerca delle provviste che aveva in valigia, come “muta di cani su una preda”. “Dovevo trasformare la mia tenera costituzione in un’armatura”. Al bambino piaceva far parte di quella “banda di selvaggi”, il gioco sfrenato con i pari, il contatto fra corpi accalcati nella notte, lo scoprire la durezza di un mondo ignoto.
In quell’ambiente mai prossimo ai bisogni e alle necessità di un bambino, Patrick poteva comunque incontrare sensibilità e delicatezza nelle poesie che il nonno, idealizzato, componeva e recitava. Una notte ritrovò la stessa mescolanza di esperienze emotive che provava in quella vacanza nel grido di una civetta: estasi e richiesta di aiuto. “La civetta mi capiva, non ero solo”.
“Le poesie di papà sono una merda!” gli dice lo zio adolescente accusando il padre di aver lasciato morire alcuni figli per incuria… ma il bambino non offre complicità: difende il padre, vivo, del proprio padre.
“Tuo nonno è un poeta pregevole. Parla alle persone con grande rispetto e sa ascoltare” confiderà a Patrick la seconda moglie del nonno.
Solo a questo punto del libro si apprende che la storia delle famiglie si svolge in Belgio.
Il lettore è accompagnato gradualmente allo svelamento, come dicevo, e in questo tragitto l’angoscia per l’imminente esecuzione si fa via via più rarefatta. E’ l’insostenibilità dello sguardo sulla morte, la viandanza nel narrativo o l’immersione nel sognare il proprio testo che conduce il lettore lontano dal plotone?
Nell’ammirazione per il nonno, un uomo “con la testa fra le nuvole” ma “con la capacità di stabilire un legame esclusivo con le persone” prende forma un riverbero identificatorio che ritroveremo poi nella futura professione di Patrick. Il nonno “…si rivolgeva ad ognuno come se fosse l’essere più importante della sua vita, E questo spiegava la venerazione di cui godeva”.
Al ritorno dalle vacanze, scheletrico e con i vestiti strappati, il ragazzino si avventa sul cibo preparato dalla nonna materna che lo osserva con forte apprensione, al contrario del nonno, orgoglioso della tempra acquisita che permetterà al nipote di essere “ il solo a non aver paura” il primo giorno della scuola elementare.
Patrick tornò dai Nothomb per le vacanze invernali e lo strinse la morsa degli stenti e del gelo. “Sopravvivere all’infanzia restava un’esperienza darwiniana per i figli di Pierre Nothomb”. In quel luogo aveva però potuto incontrare un padre che sopravvive, che delude, da odiare e amare. Un padre nel quale poteva scorgere il proprio: il figlio più amato. Poteva resistere, sopportare la fame e sopravvivere anche lui, anche al morso di qualche topo durante la notte!
Al bambino piaceva molto recitare le poesie del nonno che, grato, riuscirà un giorno ad abbracciare con affetto il nipote. Presenza, corpo, assenza, desiderio, pensiero.
La sensibile nonna acquisita gli regala ‘Poesie’, di Arthur Rimboud, “poema essenziale della storia letteraria” come lo definì Gide, e questo divenne il libro che, come il quadro del ritratto, lo avrebbe sempre seguito negli “spostamenti”. A quali spostamenti si riferisce l’autrice? Non risponde alla domanda. Chiede invece di sostare nell’indefinitezza, ci conduce al libro donato, al narrare poetico del sentire.
Molto commovente il viaggio “nell’aspro paesaggio di quelle poesie” fino ad incontrarne una che “toccava l’anima”: ‘Il battello ebbro’ di cui Patrick recita una strofa:
“Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozza
Nera e fredda dove nel crepuscolo odoroso
Un bimbo accovacciato e triste, lascia andare
Un battello lieve come in maggio una farfalla”
Patrick racconta che spesso si recava da solo verso un ruscello,“Stabilii che immergendoci la testa avrei incontrato mio padre. Tenendola sott’acqua per un po’, in effetti mi parve di scorgere il viso di un uomo”. Aveva nove anni, si era alla fine della seconda guerra mondiale, si era nel pieno dolore, e nel suo struggimento si ritrova anche il lettore.
Nell’estate del 1951 ha quindici anni, i nonni materni lo ammirano per la gentilezza, per il suo essere brillante, pacifico ed eloquente: “il contrario di quello che volevo essere” e consigliano al nipote la carriera diplomatica. “Avevo voglia di impiccarmi. Avere quindici anni è un’esperienza orribile. Il mio orizzonte si restringeva”.
Il lettore partecipa al tumulto che vive il ragazzo, al rifiuto della compiacenza, alle amicizie, a tradimenti e rotture, al primo bacio. Respingenti e toccanti le parole verso la madre dipinta nel quadro: “ormai non sei più la donna della mia vita!”
Seguiamo Patrick nella sua impresa, nell’amore contrastato dal nonno paterno per la fidanzata Danielle che diventerà comunque sua moglie. Una profonda emozione accoglie il neonato figlio André, chiamato come suo padre, ufficiale dilaniato dall’esplosione di una mina. Si afferma la vita sulla morte, lasciando al nome il compito di rianimare il ricordo di un padre perduto la cui tracce vagolano senza lasciare testimonianza di un agognato incontro.
“Era un immenso enigma, la paternità era la mia vocazione, me lo sentivo, eppure non sapevo minimamente in cosa consistesse. Contavo sul bambino, me lo avrebbe insegnato lui”.
Laureato in giurisprudenza, inizia la carriera diplomatica, ora è console belga in Congo, a Stanley. Apprendiamo che è diventato un ostaggio da quattro mesi, insieme a 1500 cittadini belgi, ammassati nella hall di un albergo requisito da guerriglieri congolesi. “Il vostro governo non ci ha ancora riconosciuti, vi uccideremo tutti!”. Patrick ogni volta propone di provare prima a parlare: “in pratica dovevo sedermi in cerchio con i loro capi e parlare fino a notte fonda”. Un grande gruppo espanso.
Viene descritta la lotta contro l’orrore, contro lo sconforto e il senso di colpa per l’uccisione di ogni ostaggio: “Il semplice fatto di non essere morto era per me motivo di vergogna”. Immaginiamo Patrick impegnarsi anche contro l’esperienza terrificante della vista del sangue, che fino ad allora lo aveva sempre lasciato accasciare senza sensi: svenimento reattivo all’orrore del padre dilaniato, alla perdita, penserà poi.
Impariamo con lui che il silenzio nella hall non deve prendere il sopravvento, pena il risveglio all’istante del “…demone del grilletto”: il dibattersi del pensiero è temuto, silenziato dall’incubo della morte!“ La parola passava da uno all’altro e, quando tornava a me, mi ci gettavo anima e corpo per lanciarla, come una palla, a chi voleva prenderla”. Al ricatto si oppone lo strenuo attaccamento alla vita, che l’azione dell’avventarsi, del gettarsi sulla parola bene rappresenta.
Patrick è il negoziatore, “versione moderna di Sheherazade”, nei quattro mesi di conflitti e temporeggiamenti.
L’orda selvaggia frequentata nell’infanzia poteva averlo temprato, come diceva il nonno, ma anche la passione per la lettura e la capacità di mettere in parola il pensiero contribuirono a tollerare la prigionia.
Prima del sonno, sul pavimento della cella, torna l’infanzia nei ricordi di Patrick e noi con lui rileggiamo le parole de ‘Il battello ebbro”, e pensiamo con tenerezza ai volti di padre e figlio che si incontrano sotto l’acqua del ruscello, pensiamo ai nostri lutti.
Viene prelevato e portato davanti al plotone, assistiamo alla scampata esecuzione!
“Sono vivo e lo resterò. Per quanto tempo? Due minuti, due ore, cinquanta anni?”
Lascio al lettore, come ha fatto l’autrice, la scoperta della risposta attraverso la lettura dell’Epilogo dove si apprende che nell’azione dei paracadutisti belgi intervenuti per salvare gli ostaggi, il 24 novembre 1964, si annoverarono tra i superstiti nove persone su dieci.
Si conclude la lettura del libro attraversati da un senso di lutto diffuso, dalla consapevolezza di una guerra mai giusta, dalla sofferenza profonda che arreca la perdita.
Eppure la poesia pervade il libro che, come colorato da una tinta “pesca settembrina”, lascia sprazzi di luce in emozioni così dure, che liquidi o rappresi, accompagnano il lettore in una esperienza emotiva simile al sogno e, come succede per il sogno, ricca di visioni e spinte associative, di ritrovamenti e scoperte anche.
Patrick ci restituisce la dimensione poetica della mente che può resistere a traumi, violenze e dolori. Con questa fiducia donata, si chiude e si ripone il libro.