Dott.ssa Sarah Gangi
Psicologa, Psicoterapeuta socia Asne-SIPSiA
Responsabile servizio di psicologia Unità di Neonatologia, Patologia e Terapia Intensiva Neonatale, Azienda Policlinico Umberto I e-mail: sara.gangi.gs@gmail.com
Il 17 novembre si celebra in tutto il mondo la “Giornata della Prematurità”. Lo scopo è sensibilizzare e aumentare la consapevolezza delle persone sulle sfide che la nascita pretermine pone ai neonati e alle loro famiglie. Anche quest’anno molti reparti si sono tinti di viola, colore dedicato a questo importante evento.
Sono trascorsi ormai due anni dall’inizio della pandemia e sono molte le riflessioni che si affacciano oggi alla nostra mente circa gli effetti che il COVID 19 ha prodotto in generale sulle nostre vite ed in particolare nei reparti di terapia neonatale.
Quanto accaduto dall’inizio della pandemia ad oggi ancora forse non è chiaro, ci vorrà molto tempo, studi e lunghe riflessioni per comprendere appieno il senso e gli effetti che questi mesi hanno prodotto. Le restrizioni messe in atto per limitare i contagi e la diffusione del virus, soprattutto nel primo periodo della pandemia, hanno toccato l’intera società, scompaginando le regole di molti reparti ospedalieri, così come di molte TIN.
In Terapia Intensiva Neonatale vengono ricoverati neonati prematuri o affetti da patologie che richiedono assistenza intensiva nei primi periodi della loro vita.
Sono bimbi fragili, indifesi, sofferenti.
Sono neonati che necessitano sì di assistenza medica ma, soprattutto, hanno bisogno di essere tenuti, sostenuti e accuditi dai loro genitori. La presenza delle mamme e dei papà per questi piccolissimi è fondamentale. È attraverso il modo in cui i genitori lo toccano, lo contengono, ad esempio con la marsupio terapia, è grazie agli stimoli rappresentati dall’odore e dalla voce dei genitori che i bisogni del neonato vengono accolti e ascoltati. È la presenza della mamma che fornisce al neonato quel rispecchiamento indispensabile affinché le sue esperienze interne possano diventare, in futuro, per lui rappresentabili. Lo diventano proprio perché sono oggetto di riflessione ed elaborazione materna e paterna.
Ma cosa succede se tutto questo è impedito? Cosa succede se un neonato è privato della presenza dei suoi genitori o se questa presenza diviene così limitata da ridursi a un paio di ore al giorno?
La pandemia, evento nuovo e pertanto sconosciuto, soprattutto nella sua prima fase, ha prodotto questo e i neonati e le loro famiglie ne hanno pagato un prezzo altissimo, i cui esiti per il momento possiamo solo ipotizzare, ma alcune ricerche stanno già cercando di comprendere e spiegare.
Non esiste un bambino da solo ci ha insegnato Winnicott. Eppure, costretti dalla paura del contagio, i neonati in molte TIN, al tempo del COVID, sono stati lasciati soli.
La pandemia dilagava ovunque e gli assembramenti dovevano essere evitati e, di conseguenza, gli ingressi ai genitori contingentati. Potevano essere presenti contemporaneamente in reparto, infatti, in numero ridotto.
Gli operatori dovevano proteggersi, e proteggere i genitori, dall’infezione da COVID19, ma siamo sicuri che in questo modo i neonati e i loro genitori sono stati davvero protetti?
Sono stati curati i loro corpi, ma i loro bisogni più profondi? Della loro psiche ci si è occupati?
È stata messa in campo un’organizzazione difensiva estremamente rigida in cui si è ricorsi a tentativi di sfuggire drammaticamente a un dolore indicibile: la paura della morte.
Il virus, con le sue possibili conseguenze nefaste, ha insegnato a guardare l’altro con diffidenza e sospetto. I genitori sono stati allontanati perché si potevano infettare e perché potevano infettare il personale. Tutto ciò ha prodotto una siderazione delle relazioni e della possibilità di mettersi nei panni degli altri. Allontanando l’altro, evitando qualunque contatto fisico, si è ripudiato e cancellato il bisogno di legame e la capacità empatica.
Separati dai loro bimbi i genitori sono precipitati in uno stato di drammatica impotenza, ansia e depressione. E i neonati? Come si sono sentiti?
A distanza di due anni forse, ora, è possibile, anzi è necessaria una riflessione per poter aiutare i nostri piccoli neonati e le loro famiglie a ricevere l’accoglienza e il supporto di cui necessitano.