Nonostante tutto, qualcosa di eccezionale
Film di Uberto Pasolini, 2020. Con James Norton
Quando nel nostro lavoro terapeutico incontriamo un bambino che sta affrontando la perdita di un genitore, siamo chiamati ad attraversare un terreno delicatissimo, nel quale è necessario che anche noi terapeuti avanziamo verso quel dolore, che spesso non ha le parole per esprimersi, con il compito di trovarle noi al posto del bambino quelle parole, ed accompagnarlo a dare un senso e una forma alle cose che accadono dentro di lui e fuori di sé. Allo stesso tempo però è anche necessario che noi restiamo fuori da quel dolore, per poterci costituire come un approdo, che traguarda una speranza di ripresa. Questo lavoro è tanto più delicato quando il bambino è molto piccolo, e pertanto non ha ancora avuto nessuna esperienza né cognizione della morte, fino a quel momento. Dove sia il papà (o la mamma) il bambino non se lo sa spiegare: percepisce un’assenza, che spessissimo viene vissuta come un abbandono, generando rabbia, ma anche vissuti di colpa.
E’ un pensiero comune che nei bambini piccoli i traumi legati a perdite così significative, siano meno dolorosi, lasceranno un segno meno profondo perché non sapendo loro cosa sia la morte, non si rendono conto di ciò che sta accadendo. Si può tendere a pensare che il bambino “dimenticherà presto” e che quell’assenza potrà essere sostituita, quel vuoto colmato.
Per questo “Nowhere Special” è un film necessario, che, senza spingere sul tasto del dolore, descrive semplicemente una storia, la storia di un lutto infantile che deve ancora avvenire: noi ne siamo spettatori, con la possibilità che ci viene offerta di fermarci a pensare sul senso più profondo dell’amore per un figlio e sull’importanza di un lavoro che accompagni anche i bambini nell’indispensabile, strutturante processo del lutto.
Presentato alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia, uscito nelle nostre sale a novembre 2021, questo film ci accompagna per mano attraverso la vicenda di Michael, un bambino di circa 3 anni, e del suo papà John, che nel tempo che gli resta, lavora per preparare il suo bambino al distacco e alla possibilità di sopravvivere alla sua stessa perdita. John sarà impegnato a scegliere una famiglia a cui affidare Michael, a spiegargli cosa sia la morte, e ad elaborare, per quanto possibile insieme, la loro separazione.
Il tempo di questa elaborazione è un tempo corto, ma denso, nel quale John avrà la possibilità e la capacità di pensare, di decidere del futuro di suo figlio, e di quale eredità lasciargli. E in questo tempo, nei molti incontri che organizzerà con le coppie che potrebbero adottare Michael, sviluppa una più profonda consapevolezza di cosa significhi essere un buon genitore e dunque scegliere chi potrà, dopo di lui, assolvere a questo cruciale compito, per Michael. Lo spettatore entra con John nelle case e nelle vite dei genitori affidatari, ed è testimone di quanto, nell’immaginario di una coppia, l’idea di un (nuovo) bambino, abbia a volte più a che fare con ferite narcisistiche, con bisogni primari di ciascuno dei genitori, che con l’amore vero e proprio e la capacità di sintonizzarsi con i bisogni dell’altro.
L’eredità di John ha poco a che fare con il piano concreto, lui, che per vivere lava i vetri di negozi e di appartamenti, e attraverso i quali osserva la vita di famiglie, più fortunate della sua, di altri bambini, più fortunati di Michael. Ma il suo è un lascito affettivo ricchissimo. Non sappiamo da dove John attinga questa capacità di nutrire, di funzionare nonostante tutto, di risarcire. Ma possiamo pensare che in fondo, egli tenta, attraverso il risarcimento anticipatorio verso la perdita che il suo bambino dovrà affrontare, di curare anche sé stesso, di restituire qualcosa anche a sè stesso, per le perdite e i lutti che ha subito. E riuscirà, mettendoci tutta la sua forza vitale, a donare a Michael una vita sufficientemente buona, e un’idea di padre che potrà essere ritrovata, ricordata e ricreata nel tempo a venire.