“Mio figlio non vuole andare a scuola! Cosa si può fare?”
Il rifiuto del bambino di andare a scuola è una delle sintomatologie più frequenti che i genitori portano agli esperti di psicologia infantile. La richiesta è quasi sempre basata sull’urgenza, ed è seguita da un’altra domanda:
“Devo forzarlo ad entrare in classe o lo riporto a casa ed aspetto qualche cambiamento? È preferibile usare le maniere forti o essere più accondiscendente”?
L’aspettativa dei genitori è che lo psicoterapeuta consiglierà la strategia migliore da aggiungere a quelle già messe in atto da loro stessi e dal personale scolastico, e che tale strategia comportamentale dovrà essere rapida e risolutiva, in quanto si teme che il figlio possa restare indietro con i programmi o peggio essere deriso o emarginato dal gruppo classe. La speranza è di ottenere, dopo pochi colloqui, una scomparsa immediata di un sintomo, così invalidante sia sul piano degli apprendimenti che su quello sociale. Quando tale aspettativa viene disattesa il genitore chiede:
“Perché nonostante l’intervento dell’esperto in psicologia il sintomo non è scomparso?”
Perché l’intervento dello psicoterapeuta non è magico e, se il sintomo non si modifica e persiste, bisogna esplorare, con più colloqui di approfondimento psicodinamico, realtà complesse che riguardano non solo il mondo sociale e relazionale, ma anche quello familiare ed interiore del bambino. Se sono presenti ansie, blocchi o inibizioni del processo evolutivo è bene proporre ai genitori un trattamento psicoterapeutico per il bambino. Ovviamente il rifiuto scolastico assume connotazioni e significati diversi a seconda dell’età.
La domanda che viene posta da genitori di bambini in età prescolare è la seguente:
“Perché vuole stare sempre con noi e non riesce a socializzare con altri bambini?”
A tutti è nota la fisiologica angoscia di separazione che i bambini piccoli provano quando vengono inseriti nella scuola materna, ma, se dopo un congruo lasso di tempo l’ansia non migliora, vanno esplorate le dinamiche psicologiche che non risiedono, come spesso si pensa in strategie educative inadeguate, ma nel mondo interno del bambino. Il piccolo che non riesce a lasciare la madre e a trascorrere alcune ore al giorno in un altro ambiente, vissuto come ostile e pericoloso, va aiutato a ridurre la scissione tra buono, affidabile e sicuro (la mamma, la famiglia, la casa) e cattivo (l’ambiente scolastico, le insegnanti, il gruppo classe). Questo lavoro terapeutico va fatto sia con il bambino che con i genitori (in particolare la madre) i quali spesso, inconsciamente, fanno fatica ad affidare i loro figli a terzi, sentendo il bambino come molto
piccolo e ritenendosi i soli capaci di capirlo e supportarlo nel suo processo evolutivo.
A volte ci si può trovare in situazioni opposte: genitori, che sotto la pressione di problemi lavorativi e ambientali, spingono i figli, che non hanno ancora raggiunto la capacità di stare soli e separati da loro, a diventare più grandi prima del tempo. Le situazioni di necessità i bambini non sono in grado di comprenderle ed il loro rifiuto della scuola può essere una sana protesta che richiede, per separarsi, il rispetto dei tempi richiesti dal suo processo maturativo. La situazione del bambino in età scolare è molto diversa. Anche se i problemi di separazione sono superati o restano sullo sfondo, al soggetto viene richiesto con i graduali apprendimenti della scrittura, lettura e calcolo un funzionamento cognitivo a cui non sempre è pronto. Questo dato può generare un senso di inadeguatezza e di inferiorità accentuato dai cambiamenti nelle figure e nel rapporto con le insegnanti. Si acuisce il desiderio di competere e di primeggiare e, se non si riesce in questo intento, si prova un senso di frustrazione che può portare, in casi estremi, al rifiuto della scuola.
Una domanda che il genitore si pone, più frequentemente in questa fascia di età, è la seguente:
“Il rifiuto scolastico non nasce forse da una mancata sintonia con gli insegnanti, che vengono vissuti come troppo duri, esigenti e incapaci di seguire il ritmo degli apprendimenti del bambino?”
A cui ne segue un’altra molto frequente:
“Per caso il bambino è diventato oggetto di emarginazione o addirittura viene bullizzato da alcuni bambini o dal gruppo classe?”
Sia la relazione con le insegnanti che le dinamiche che avvengono nel gruppo classe sono le prime a dover essere esplorate e risolte, meglio se con l’aiuto dello psicologo della scuola.
A volte, però, per questi bambini non è la scuola fattore di stress ma situazioni famigliari complicate o conflittuali (ad es. separazione dei genitori, nascita di un fratellino, malattie o lutti in famiglia). In queste situazioni i genitori sensibili fanno, nel tentativo di capire il figlio, correlazioni tra gli eventi famigliari e il rifiuto scolastico con domande tipo:
“È rimasto forse traumatizzato, ad esempio, dalla nascita del fratellino?”
chiedendo allo psicoterapeuta eventuali conferme e soluzioni al riguardo. In questi casi il rifiuto scolastico può essere legato al bisogno di tenere sotto controllo il benessere famigliare in quanto domina nel bambino la fantasia che, in loro assenza, potrebbe verificarsi una catastrofe.
Il lavoro di comprensione del sintomo di rifiuto e di reintegrazione del bambino nell’ambiente scolastico va fatto, quindi, in primis sulle insegnanti e sul gruppo classe, aiutate dallo psicologo della scuola e, poi, se il sintomo non scompare, anche sui genitori e sul mondo interno del bambino.
Più complicato da gestire è il rifiuto durante l’adolescenza che a volte può portare all’abbandono scolastico anche prima della fine della scuola dell’obbligo. Due sono le domande più frequenti che i genitori rivolgono
allo specialista:
“È stato fatta una buona scelta della scuola superiore? È stato orientato a fare gli studi verso cui ha una buona attitudine?”.
“Come possiamo gestire l’ansia da prestazione di nostro figlio?”
Nella scuola superiore le richieste relative agli apprendimenti da parte dei docenti sono più alte ed i ragazzi da una parte, non sentendosi all’altezza, possono sviluppare ansia da prestazione, da un’altra parte sono portati a pensare di non avere scelto la scuola più adatta alle proprie attitudini e vanno in crisi, chiedendo ai genitori un cambiamento. In questo periodo così delicato dell’esistenza, dominato dalla crisi d’identità e da uno stato di sofferenza confusionale endopsichica particolarmente intensa, la scuola diventa il teatro su cui si agiscono queste conflittualità; così, ad esempio, il ragazzo che vive i genitori come coloro che danno eccessiva importanza all’istruzione, può usare, come modalità oppositiva e di protesta per affermare la propria nascente identità, proprio il rifiuto scolastico.
Il ragazzo può anche arrivare a comportamenti più drastici e potenzialmente patologici quali, attaccando le sue capacità culturali ed intellettive, rifiutando la scuola e inserendosi precocemente nel mondo del lavoro, fare una fuga verso il mondo degli adulti. Se invece le componenti depressive sono dominanti, l’abbandono scolastico può essere accompagnato da rifiuto sociale, chiusura alla famiglia e al gruppo dei pari.
Partendo dalla richiesta di genitori preoccupati, non abbiamo analizzato quelle situazioni di psicopatologia o di degrado sociale di famiglie disfunzionali che, loro malgrado, bloccano il processo evolutivo dei figli. L’intervento in primis dei Servizi Sociali e della Istituzione Scolastica può essere estremamente utile per arginare questo processo. Come pure abbiamo lasciato sullo sfondo eventuali disfunzioni nel sistema scolastico che possono non facilitare l’accettazione del medesimo da parte dell’utente.
A tutto ciò, dobbiamo aggiungere l’enorme disagio creato in questi ultimi anni dalla pandemia, che, soprattutto in adolescenza, ha inciso e modificato in modo pesante e confusivo i processi di apprendimento e socializzazione. Da quanto sopra detto non è difficile arguire che il rifiuto scolastico, sintomo banale ma allo stesso tempo fortemente invalidante, non è di facile lettura e risoluzione. Esso si colloca e, ne richiede l’esplorazione, in primis nel mondo interno del bambino, nelle sue difficoltà e arresti nel processo evolutivo, poi nel mondo delle relazioni famigliari, scolastiche e sociali.
Tutte queste complessità vanno gradatamente capite per valutarne le ricadute sul soggetto portatore del sintomo e riattivarne il percorso evolutivo bloccato.
di Emilia De Rosa