di Chiara Giarrizzo
L’ultimo film di Almodóvar (2021) con protagonista la bravissima Penelope Cruz, è un film che tocca corde emotive come il regista è solito fare, ma forse con una qualità diversa di maturità.
Come il titolo indica il tema è la maternità, una maternità con sfaccettature diverse ma sicuramente vissuta in modo esclusivo e non condiviso.
Da un lato la maternità come occasione inaspettata e desiderata, dall’altro una maternità prematura e temuta. Questa duplicità si rincorre per tutto il film, come le due protagoniste, Janis, una fotografa di talento e Ana, una adolescente spaventata.
La prima è in età adulta e scopre di essere incinta dopo un anno di relazione d’amore con un antropologo forense sposato, che la ama e le chiede di aspettare a fare questo passo. Decide invece di tenere la bambina, e crescerla da madre single come sua madre e prima ancora sua nonna.
La seconda donna, Ana, invece è minorenne, ha subito delle molestie dai suoi compagni e ha due genitori presi da loro stessi più che dai bisogni della figlia, che non si è mai sentita sostenuta e capita.
Le due donne si conoscono in ospedale durante il travaglio, legano subito, e le loro bambine naseranno lo stesso giorno. Due bambine, due madri, a confermare quell’attenzione all’universo femminile del regista, che si muove nelle sfaccettature affettive e umane dell’essere donna e madre, in questo caso appunto madri parallele.
Guardando questo film è facile pensare all’importanza del rispecchiamento winnicottiano, non solo come fase primaria per lo sviluppo del Sè del neonato che riconosce se stesso nel guardare il volto della propria madre, ma soprattutto rispetto all’importanza, per la giovane donna che diventa madre e “nasce” in questa nuova veste, di potersi rispecchiare nelle altre madri, attraverso una sana identificazione con le altre figure femminili e materne che ha a disposizione internamene e nell’ambiente intorno a sé.
Donne allo specchio, ma parallele e sole, o contornate da altre donne sole sullo sfondo, sono madri protagoniste senza padri, che sono qui negati, assenti, o invisibili.
Per quanto diverse, le due donne sperimenteranno una simile esperienza affettiva, vivranno con gioia e gratitudine la maternità, investendo ognuna in questa dimensione una personale riparazione, una rivincita individuale e familiare, nutrendosi di questo rapporto esclusivo e totalizzante.
Le due donne si cercano e si respingono nei primi mesi di vita delle loro bambine, tra di loro nasce un feeling che diventerà più concreto e sentimentale quando si rincontreranno dopo un po’ di tempo, ma soprattutto dopo eventi tragici e sconvolgenti, che aprono in ognuna delle protagoniste ferite profonde e difficilmente riparabili.
Si apre una differenziazione però tra le due, da una parte la maturità di una vita in cui c’è spazio per altro dalla maternità, lavoro, rapporti amicali e dall’altra una condizione fragile di figlia madre che riesce ad investire solo nella maternità per crescere. Ma questa è un apparente distinzione perché le due si alterneranno nel mostrare le loro fragilità e debolezze, svelando aspetti più egoistici o sentimenti più genuini.
Quando i legami si spezzano allora la fragilità dell’una tenterà di appoggiarsi alla forza l’altra, condividendo sì il dolore, che scopriremo essere comune, ma anche sovrapponendo e confondendo piani familiari e sentimentali, forse alla ricerca scomposta di un proprio spazio.
Qui il film si apre al dubbio, al sospetto e al dramma. Forse è questo uno dei punti salienti e critici, l’apparente leggerezza con cui si tenta di elaborare l’inelaborabile, il trauma.
Per fortuna, nella trama questo tentativo di riparazione è saggiamente affidato al recupero di una memoria storica, chiave vincente che da solidità alla storia.
La protagonista Janis, infatti, rincorre il sogno di ritrovare il bisnonno, assassinato durante la guerra civile spagnola insieme ad altri compaesani e sepolto in una fossa comune nel paese d’origine.
La perdita e la morte, antiche o recenti che siano, ci pongono davanti a un senso di estraniamento, al timore di non avere più radici o un passato. Sollevano il dubbio che non ci appartenga più ciò che conosciamo come nostro, e di non esistere più per come ci siamo finora conosciuti, ma ci espongono anche al dolore di essere privati improvvisamente del nostro futuro. O almeno ciò che, fino a quel momento, abbiamo creduto, vissuto, immaginato e fantasticato essere il nostro futuro.
Il parallelismo tra presente e passato, tra identità e filiazione, tra legame d’amore e legame di sangue è il filo conduttore attraverso cui ci si muove, attraverso cui il singolo, e simbolicamente il paese intero, fanno i conti col proprio passato e con la propria storia, sia personale che collettiva.
Allo stesso tempo anche le due donne sono in parallelo nel loro percorso identitario, che le vede dapprima nascere come madri, poi vivere la pienezza dell’amore per un figlio e infine soffrire la ferita più straziante ci sia per una madre, per poi tentare di rinascere.
Almodóvar ci ricorda che per riparare una ferita narcisistica e affettiva tanto grave si può, e forse si deve, attingere al recupero di quei legami del passato, ricucendo le radici spezzate e tessendo fili di integrazione ed elaborazione.
La verità verrà a galla, quella storica degli antenati così come quella più intima e segreta delle protagoniste. I colpi di scena non mancano ma forse la conclusione, a mio parere, perde qualcosa in credibilità; ma si sa quanto le storie di Almodóvar abbiano dell’incredibile.
L’armonia ritrovata, la capacità ripartiva delle protagoniste e la semplicità apparente nel vivere situazioni familiari allargate o condivise ma allo stesso tempo estremamente confusive, possono piacere narrativamente e artisticamente, ma non possono non lasciare perplesso chi si occupa del grande e difficile lavoro che riguarda le sofferenze altrui e le fragilità dei legami familiari.
È chiaro che questo, come molti dei film di questo splendido regista, è un film dalla parte degli adulti, delle madri o dei genitori in senso lato, ma non dalla parte dei bambini, che non sono tutelati nelle scelte fondamentali che li riguardano. Scelte agite più che pensate, come se le azioni genitoriali non implicassero conseguenze, anche traumatiche, per i figli.
Scelte, in questo caso per legami di sangue o affetto, compiute sulla base di ferite narcisistiche delle protagoniste, che vanno a stravolgere la vita dei figli nei riferimenti primari, minando le basi della loro stabilità emotiva e identitaria, e ripetendo inconsciamente traumi del passato di rottura e separazione.
Ma rimaniamo sul prodotto artistico e sul suo messaggio, che sottolinea la speranza e il valore del mutuo aiuto, della condivisione in senso lato, e potrebbe essere letto come espressione del bisogno, che noi tutti abbiamo, di voler credere alla possibilità di rinascita e di futuro, e che le difficoltà più impensabili o drammatiche possano trovare una risoluzione o, quantomeno, che valga sempre la pena tentare.