Tutti sappiamo come si formano le perle.
Quando un granello di sabbia si infiltra “accidentalmente” nella conchiglia di un’ostrica, l’ostrica la incista,
secernendo una quantità sempre maggiore di un muco denso e liscio che si indurisce in microscopici strati successivi al di sopra dell’agente irritante esterno (il granello di sabbia), fino a renderlo un oggetto meravigliosamente nuovo, rotondo, duro e luccicante.
L’ostrica possiamo dire trasforma se stessa e il granello di sabbia in qualcosa di nuovo, integrando l’intrusione di un’anomalia o di una diversità all’interno del sistema, in accordo alla propria natura di ostrica.
Se l’ostrica avesse le mani non esisterebbero le perle.
(Stephen Namanovitch)
di Silvia Ronconi, Martina Serban
Durante il primo periodo di insorgenza della pandemia, mi sono chiesta come poter sopravvivere psicologicamente, ritrovando la strada che mi riconducesse a quel senso di “continuità dell’essere” fondamentale per il benessere della vita psichica. Proprio in quel momento di forte isolamento, di regressione rispetto ai nostri legami con la realtà, mi sono accorta di quanto la creatività diventi una risorsa fondamentale, forse unica, per riuscire a conservare il piacere del sentirsi vivo, che accompagna quel sentimento di speranza fiduciosa nel domani. Così, come il bambino nell’esperienza del “cercato-trovato” sviluppa quello stato di “onnipotenza infantile” che gli consente di sopportare la frustrazione dell’assenza, anche noi adulti, proprio durante i periodi di avversità, possiamo ricreare quel vissuto salvifico, che ci consente di superare le vicissitudini contingenti. Ciò avviene attraverso la messa in gioco del nostro patrimonio creativo nell’ambito dello “spazio transizionale” costituito dal gioco e dall’esperienza artistica e culturale (Winnicott 1951).
Anche Freud, in una maniera giudicabile forse inconsueta per la sua opera, in Introduzione al Narcisismo (1914), ci indica come sia indispensabile nel corso dello sviluppo dell’Io “andare oltre le frontiere del narcisismo” (cit), evitando la malattia che il ritiro genera e come ciò sia possibile proprio attraverso l’uso della creatività. Freud cita i versi del poeta Heine:
“Fu malattia ciò che mi diè
L’intimo impulso creativo.
Creando vidi che guarivo,
Creare fu guarir per me”.
Per non ammalarsi bisogna creare e noi possiamo farlo avendolo sperimentato alle origini dello sviluppo, quando stava nascendo il senso del Sé; talvolta questo processo può essere stato difficile, talvolta difforme, ma in molti casi può aver conservato delle aree di integrità e proprio queste, se favorite e stimolate, diventano cardine di nuove esperienze trasformative e strutturanti.
Tornando alla mia esperienza personale nel primo periodo di pandemia, seguendo il filo dei miei ricordi e dei miei affetti, sono entrata in contatto con la storia della danzatrice argentina Maria Fux, ideatrice di un metodo di danza creativa e danzaterapia che ho trovato eccezionalmente libero e che ha rinforzato gli aspetti più vivi e tenaci del mio resistere alle avversità che stavo attraversando.
Guida del mio percorso è stata Martina Serban1, psicologa e danzaterapeuta, coautrice di questo breve contributo.
Riflettendo a posteriori sulle sessioni di danza creativa che ho svolto con lei online, ho trovato alcune affinità con il mio lavoro di psicoterapeuta, in particolare con la terapia dei bambini, ma anche con quella degli adolescenti e degli adulti. In altre parole la danzaterapia ha consentito il nascere di nuovi strumenti per pensare, nuove suggestioni, nuove possibilità di riflessione. Vorrei proporle brevemente in questo scritto, coadiuvata da Martina Serban, affinché si possa condividere il piacere di questa scoperta e di questa nuova dimensione di cambiamento2.
–Chi è Maria Fux
Il percorso artistico di Maria Fux (che attualmente vive a Buenos Aires e ha compiuto recentemente 100 anni) è figlio della nascita ed evoluzione della danza moderna del XX secolo. La grande danzatrice a cui si deve l’inizio di questa rivoluzione è Isadora Duncan, che nei primi anni del Novecento, con il suo spirito innovatore, divenne promotrice di una danza libera più attinente alla vita dell’uomo. Qualche anno dopo sarà Martha Graham, di cui Maria Fux diventa allieva, a diventare fondatrice di una nuova scuola del movimento, che tenne conto di tutti i fermenti che, da Isadora Duncan alla Scuola Centro-Europa, diedero origine alla modern dance. A partire da questi stimoli e con uno spirito di contaminazione ed interesse verso il mondo culturale (anche psicoanalitico) ed artistico presente in quegli anni in Argentina, Maria Fux inizia la sua carriera come artista e come diremmo oggi, giovane performer d’avanguardia. Sperimenta forme per incontrare il pubblico anche al di fuori dei contesti canonici, danza nei teatri più importanti dell’Argentina e non solo. Nel 1955, ospite del Ministro della Cultura Russo, danza al Teatro Ermitage di Mosca e inaspettatamente il suo spettacolo rimane in cartellone per tre mesi. Incuriosita e spinta dal raggiungere un pubblico più ampio e anche meno ricettivo rispetto a quello colto che normalmente presenziava nei teatri, danza per gli operai delle miniere di Zapla, o nel Giardino Botanico di Buenos Aires, partecipa come danzatrice e coreografa ad un videoclip con il celebre musicista Dizzy Gillespie. Nel 1967 è invitata in Israele dove realizza venticinque spettacoli nei teatri di Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa, nonché in vari kibbutz, dove decide di allestire uno spettacolo per bambini. La sua ricerca artistica la porta a confrontarsi con modi alternativi di concepire il movimento ed in occasione di un suo spettacolo al Teatro del Hogar Orbero, Maria Fux fa un incontro che ritenne decisivo per la sua vita artistica, ossia la conoscenza Leticia, una bambina sorda di quattro anni. Questo incontro, di grande impatto, la porterà a presentare Dialogo nel Silenzio, uno spettacolo che vedrà la partecipazione di Maria Fernanda, un’altra ragazza non udente. Sulla base di queste prime esperienze, inizierà a sperimentare un metodo di avvicinamento alla danza per i soggetti con ipoacusia, guidando i partecipanti attraverso stimoli visivi e vibrazioni. Via via accoglierà nelle sue lezioni persone con diverse limitazioni fisiche e mentali ed andrà negli anni affinando una metodologia ricca e profonda, in grado di riportare la danza al suo valore “educativo e terapeutico”: una danza in grado di rivolgersi a tutti in quanto basata e fondata sul suo carattere universale. La sua predisposizione ad avvicinarsi al limite ha radici profonde, nel legame con la madre, fortemente limitata nei movimenti a causa di uno dei due ginocchi senza rotula. Più tardi a seguito di un’operazione all’anca e alla fase di riabilitazione al ginocchio dopo una caduta, sarà Maria stessa ha fare esperienza del limite nel suo corpo. Sperimentare sulla sua pelle forme nuove per recuperare le risorse nel corpo ed appoggiarsi alle parti sane per trasformare i propri limiti diventeranno idee fondanti del suo approccio alla danza e al movimento (Colombo 2006). Diventerà quindi centrale il lavoro con gruppi integrati ed eterogenei per condizioni fisiche e mentali: persone con disabilità motorie, con sindrome di down, con sintomi psichiatrici, insieme ad individui senza particolari patologie (soggetti sani).
Scrive Maria Fux: “trovo ogni giorno nello spazio movimenti unici che mi esprimono, che si sciolgono come le ore e mi avvolgono. Desiderano proiettarsi, vogliono consegnarsi e il mio corpo è il mezzo.”
La danzaterapia nasce da queste sue riflessioni ed esperienze, da questa continua, impellente ricerca di affinamento delle modalità di espressione, trasformazione e cambiamento, ritornando al significato originario della danza, come istintuale espressione di sé attraverso il movimento. Nel tempo la Fux va creando una metodologia a cui presto viene attribuito appunto il nome danzaterapia, proprio perché non si rivolge a persone elette o dotate, ma si apre alla totalità degli individui offrendo occasioni di cambiamento e crescita.
– Creatività e danzaterapia: il concetto di cambiamento
La danzaterapia rende possibile l’incontro con se stessi, con il proprio corpo e le proprie emozioni: rappresenta la possibilità creativa di essere autentici e sentirsi vivi attraverso il movimento, senza interpretazioni o verbalizzazioni. Nell’esperienza dell’improvvisazione, ovvero quando la persona non ha passi prestabiliti e codificati da eseguire, si è guidati dal conduttore del gruppo ad esplorare il tema dell’incontro. L’obiettivo è che il partecipante possa sentirsi via via più libero nel movimento, incontrando la propria creatività all’interno della cornice musicale e tematica proposta. Per fare questo è necessario “sospendere la razionalità” e la ricerca di un movimento giusto o esteticamente bello, bisogna compiere lo sforzo di lasciarsi andare, di accettare i limiti e le possibilità del proprio corpo, per incontrare la meraviglia del dialogo con la musica. La mente diventa allora completamente immersa nell’esperienza, nel fare del corpo, l’attenzione e l’intenzione si fondono dando forma ad una danza personale e unica, come la costellazione di cellule che vibrano dentro il corpo e rispondono così diversamente alle note musicali. Nel momento in cui improvvisiamo emerge quanto più di profondo sia in noi, poiché attraverso il movimento riusciamo a portare alla luce livelli inconsapevoli di noi stessi, aprendo agli altri il nostro mondo interno. È immergendoci nel danzare, con i sensi aperti e la disponibilità dell’animo, che si aprono le porte all’intuizione, origine del flusso creativo.
Nella pratica della danzaterapia secondo la metodologia Maria Fux, si propone al gruppo un’unica musica, o al massimo due, su cui realizzare un incontro di un’ora. Questo rende possibile da un lato l’approfondimento della stessa e dall’altro l’instaurarsi di un dialogo sincero e veritiero, per fare in modo che la musica prenda corpo, e che il corpo entri in dialogo con essa attraverso il movimento. Questo non vuol dire ripetere pedissequamente la stessa cosa, che ci rimanda al concetto di esercizio, ma instaurare una ricerca di continue possibilità e nuove forme, a partire da quello stesso tema musicale. Secondo Maria Fux “non si apprende a fare, si apprende vivendo veramente ciò che si fa”. Stando in ciò che si sente e non facendo nulla che non sia veritiero, è possibile apprendere e per apprendere non c’è altro modo che fare e fare ancora. È grazie a questo processo di ripetizione che è possibile produrre, nel tempo, dei cambiamenti in se stessi e in come ci si relaziona con ciò che ci circonda: la danza diventa allora improvvisazione di vita.
Maria Fux:“Io non sono psicologa, né psicoterapeuta. Danzo da quarantasei anni, cercando di comprendere questi infiniti cambiamenti, che si manifestano nel mio corpo, che rinnovano la mia materia, aiuto a comprendere ciò che accade alle persone nei gruppi ai quali dono la mia esperienza. L’obiettivo ultimo della danzaterapia è produrre quei cambiamenti, ma dall’interno, perché la terapia altro non è che un cambiamento per sentirsi meglio”.
–Il ruolo del conduttore
La parola condurre deriva dal latino cum –insieme- e -ducere– trarre: i significati attribuibili alla parola latina, stanno ad indicare la funzione di guida, la regolazione del cammino e del movimento della persona. Si distanzia dal sostantivo guidare per il fatto di non comprendere l’atto di dirigere, quanto l’idea di avere compagnia e portare una persona da un luogo all’altro attraverso la musica e la danza.
La conduzione di un gruppo è un’arte che si coltiva e si matura nel tempo, giacché molteplici sono gli aspetti e gli elementi che entrano in gioco.
Uno dei più caratterizzanti riguarda l’utilizzo del corpo e della voce del conduttore: l’intera esperienza è riportata infatti su un piano corporeo ed il fatto che la razionalità sia “momentaneamente sospesa” è reso possibile dalla relazione tra conduttore e gruppo, a partire dal primissimo momento in cui le persone raggiungono lo spazio dell’incontro. Per questo è necessario che il danzaterapeuta intraprenda un percorso su se stesso, che non riguardi solo il bagaglio di conoscenze ed abilità, ma una pratica costante e continua che affini la sua sensibilità, il suo essere in grado di sentire l’altro, di captare i rimandi del proprio corpo e di quello altrui, in generale di vivere le relazioni con il gruppo attraverso il corpo. Siamo culturalmente abituati a considerare e utilizzare il sapere che ci arriva dalla mente, dal pensiero, dalla logica. Culturalmente ciò che supera il vaglio della logica è reale, vero e quindi logico e corretto. Spesso invece ci accorgiamo che esiste anche un altro sapere, che a volte coincide con il sapere razionale e a volte se ne distanzia: è il sapere del corpo, l’insieme variegato di sensazioni, immagini e suggestioni che arrivano alla coscienza direttamente dalla sfera intuitiva che la fisicità custodisce. Siamo nel campo di quelle che vengono normalmente chiamate le percezioni del corpo, quello che il corpo ci fa sperimentare e sentire: è qui che abita la creatività e un percorso che punta sulla sua ri-scoperta, non può non attraversare questo campo. Secondo il metodo Fux quindi il conduttore non utilizza spiegazioni, né si avvale di argomentazioni perché l’obiettivo non è insegnare, ma far vivere un’esperienza, compiere un viaggio all’interno del proprio corpo, tra colori, immagini, sensazioni, emozioni. Lasciare che questi rimandi affiorino e sgorghino nei loro modi e tempi è davvero possibile solo se il conduttore riesce a instaurare una relazione autentica con i componenti del gruppo attraverso il proprio corpo.
Ciò è collegato al modo che il conduttore ha di porsi dinanzi al gruppo nel qui e ora, ma anche con la sua preparazione prima dell’incontro. Nulla di ciò che si propone in sede di un incontro è casuale, anche nel momento in cui si coglie l’occasione per attuare dei cambiamenti nel corso stesso dell’esperienza. La preparazione è il momento in cui si sceglie una musica, uno stimolo, un tema da trattare, lasciandosi guidare anche dall’intuizione o dal richiamo del momento, nella propria danza se ne incontrano poi i possibili sviluppi. Durante la fase di preparazione il danzaterapeuta saprà lasciarsi attraversare dalla musica, per scoprire le sensazioni che il suo corpo propone, questo è un momento imprescindibile per rapportarsi al gruppo e accompagnare le persona a esplorare la musica e il tema che essa offre.
-Le parole-madri
Dall’esperienza viva e autentica della musica non sgorgano solo movimenti, ma affiorano anche parole: Maria Fux dà a queste ultime un’importanza enorme e le valorizza per il loro potere “acceleratore dell’esperienza”. Afferma di essere sempre attentissima alle parole che usa, tutto quello che emerge durante l’incontro con la musica è il nucleo da cui originano le parole scelte. Queste parole arrivano dall’esperienza del corpo, il corpo e la parola si fondono per dare vita a quelle che nella metodologia si chiamano “parole-madri”, ovvero parole che vivono e diventano reali e tangibili attraverso il corpo e la voce del conduttore. Le parole-madri si contraddistinguono per la loro forza e per la capacità che hanno di evocare immagini, di diventare metafore; ogni partecipante può viverle nella propria maniera, dato il loro significato ampio e comprensivo. In questo senso risultano essere poetiche in quanto aprono a diversi mondi possibili.
Le “parole-madri” sono significative non solo per quello che sono, per i significati a cui rimandano, ma anche per come vengono espresse: sono un tutt’uno con il corpo e quindi un tutt’uno con la voce. Se il conduttore realmente porta l’esperienza viva della musica, allora la sua voce è in completo accordo con la stessa: ha un certo tono, ha un certo ritmo e una certa cadenza. Tutto questo può avvenire lasciando che la voce sia espressione stessa della musica e che le parole vengano vissute come se fossero realmente suggerite da essa stessa e fossero in grado di danzare tra le note, lasciando istanti di silenzio, quasi come una boccata di respiro, prima che la danza continui.
Perché sia credibile, perché ed arrivi autenticamente al gruppo, la parola dev’essere vissuta con autenticità: la voce allora rende le parole espressione del corpo, restituisce le sfumature e le sensazioni che il corpo ha ricevuto dall’esperienza della musica. Questo fa sì che le parole che il conduttore porta al gruppo, vengano percepite come se venissero dette direttamente dalla musica, facendosi egli ponte tra il vissuto del gruppo e il messaggio che la musica intende suscitare.
-Affinità con la psicoterapia psicoanalitica
Prendendo in considerazione alcuni degli elementi appena descritti, sono molti i punti che ricordano la clinica psicoanalitica: la funzione attribuita alla creatività personale nel processo trasformativo, l’importanza della continuità e della costanza dei diversi incontri, il ruolo del conduttore che richiama quello del terapeuta, l’importanza del setting, l’uso di aspetti simbolici, la riflessione sulle dinamiche del gruppo e del gruppo con il conduttore. Tuttavia c’è un elemento in particolare che vorremmo mettere in evidenza, ossia funzione della danzaterapia come possibilità evocativa di aspetti primari inconsci, che possono essere espressi e venire alla luce, in alcuni casi anche riparati.
Le esperienze descritte ci fanno venire in mente, infatti, il concetto di “inconscio non rimosso” (Schinaia 2020), ossia quel contenitore di esperienze precoci e preverbali con gli oggetti interni che ognuno di noi conserva, insieme alle difese nei confronti di traumi o vissuti dolorosi. Questo bagaglio di memorie non verbale, non simbolico, non associato a ricordi specifici, quindi non rappresentabile, influenza attivamente la nostra vita affettiva e relazionale. L’insieme di tali esperienze primitive possono rappresentare una parte potenzialmente non integrata del Sé, che può manifestarsi anche tramite sintomi o disagi, minacciando l’integrità della persona.
Attraverso il concetto di “legame estetico”, A. Lemma, in un suo interessante scritto (2019), descrive il modo attraverso il quale la madre ed il bambino sperimentano attraverso i sensi la fisicità l’uno dell’altro. Con il suo corpo e l’uso della sensorialità la madre devota crea quell’ambiente perfetto, adattato ai bisogni del neonato, di cui Winnicott ci racconta. La madre è innamorata della bellezza del suo bambino e quest’ultimo è reciprocamente attratto da lei, questo legame fonda “una forma di speranza incarnata” (cit): che possa esserci qualcuno capace di comprendere i propri bisogni e che possa tenere rispetto alle angosce di frammentazione e crollo (holding). Anche noi adulti, attraverso i legami estetici che ricreiamo nelle nostre relazioni significative, possiamo “comprendere attraverso i sensi”(cit.) ed entrare in contatto con la fisicità dell’altro, con il suo movimento, con il suo sguardo con il tono della sua voce, con il suo essere fisicamente presente. Addirittura l’autrice sostiene che la stanza del terapeuta, il lettino o il divano rappresentino per il paziente il corpo della madre e le sue caratteristiche sensoriali.
Tornando alla nostra riflessione, abbiamo immaginato che, nelle sessioni di danza creativa, le esperienze percettive del corpo in movimento nello spazio e la relazione sia con il conduttore, sia con il gruppo di danzatori possano attingere proprio al tipo di esperienze cui si riferiscono Lemma e Schinaia nei loro lavori. Tali memorie corporee usufruiscono di una nuova possibilità rappresentativa, offerta dalla poeticità e dalla drammatizzazione di questa danza, che diventa collocabile all’interno dei fenomeni transizionali, con tutte le qualità trasformative di cui essi godono.
Per concludere, a nostro avviso l’esperienza del danzare, secondo questo particolare metodo, può beneficiare di importanti proprietà di cambiamento per il partecipante, ma anche essere una fonte di riflessione per noi psicoterapeuti.
Per quanto riguarda il primo punto e mettendoci in una prospettiva del “come se”, possiamo dire che quello che il corpo ricorda può essere finalmente rappresentato, con un linguaggio più antico, un linguaggio nascosto, dimenticato. Questa riscoperta può condurre all’integrazione, se giustamente accolta ed in qualche modo utilizzata, tramite una traduzione in simbolo del suo contenuto, facendo leva anche sulla funzione del gioco, molto presente nelle sessioni di danzaterapia. In particolare ci è venuto in mente quanto questo possa essere, in alcuni contesti specifici, un lavoro insieme alla psicoterapia, per far emergere la parola a partire dal corpo, ma in generale differenziandosi da quell’esperienza “catartica”di abbattimento delle difese che molte pratiche corporee propongono.
Rispetto al secondo punto, la conoscenza di questo metodo ci ha aiutato a valorizzare una serie di elementi relativi alla presenza fisica ed alla corporeità dello psicoterapeuta nella stanza insieme al suo paziente. Non solo il linguaggio non verbale, ma l’ambiente stesso in cui si svolge la seduta veicolano secondo quest’ottica messaggi inconsci molto profondi. A partire da dettagli molto piccoli, possono essere scambiati significati emotivi importanti rivolti nello specifico ad aspetti regrediti del Sé del paziente, che comunica e recepisce tramite il funzionamento percettivo ed il movimento del corpo. Il pensiero va alla pratica delle sedute online ed ai limiti che comportano, pur senza escluderne l’uso a priori, ci si rende ben coscienti delle barriere che il virtuale comporta.
Un ultimo pensiero: la possibilità di fare esperienza di questo metodo ci ha consentito di ampliare la nostra riflessione non solo sui nostri pazienti e sul nostro metodo di lavoro, ma anche su noi stesse arricchendo la nostra abilità nel prendersi cura della sofferenza dell’altro.
Immagine tratta da “Dancing with Maria” di Ivan Gergolet (regista), per gentile concessione di Igor Princic (produttore)
Note 1Martina Serban è una psicologa e danzaterapeuta, diplomata presso la scuola di Formazione “Risvegli Maria Fux “ di Milano, di cui oggi è docente e coordinatrice didattica. Nel 2009 intraprende un percorso didattico direttamente con Maria Fux in Argentina, completando la sua formazione con un secondo diploma nel 2013. Da 14 anni porta la danzaterapia nei contesti più diversi: dalle scuole per l’infanzia, elementari o superiori, alle scuole di danza, ai gruppi integrati con disabilità fisiche e/o mentali, a contesti di cura come le strutture residenziali per persone non autosufficienti, tra cui i nuclei protetti per demenze severe e Alzheimer e persone in riabilitazione dopo ischemie cerebrali. Attualmente porta avanti un progetto di danzaterapia presso l’Ospedale di Monfalcone rivolto a giovani in cura per i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA).
2 Per una comprensione più accurata del metodo di lavoro di Maria Fux si rimanda al documentario “Dancing with Maria” (2014) di Ivan Gregolet con Martina Serban, presentato nella settimana della critica alla 71 esima edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Bibliografia
Colombo C. (2006): Radici e forme della danza terapia. Uno sguardo sul metodo Maria Fux. M&B editore.
Freud S. (1914): Introduzione al narcisismo. Bollati Boringhieri 1976.
Lemma A. (2019): Il legame estetico: l’uso del corpo dell’analista e del corpo della stanza di analisi da parte del paziente. Rivista di psicoanalisi vol 1.
Schinaia C. (2020): Psicoanalisi e attività sportiva: tra procedura auto calmante e recupero di memeorie infantili. Rivista di psicoanalisi vol 1.
Winnicott D (1951): Oggetti transizionali e fenomeni transizionali. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli 1975.