Alla ricerca della propria voce…
di Giuliana Bruno
La famiglia Bélier è un film semplice, leggero, divertente, commovente e, nello stesso tempo, profondo. Sicuramente tocca in tutti gli spettatori affetti dalle diverse sfumature. Ma è anche particolarmente stimolante su alcuni temi attinenti al lavoro degli psicoterapeuti dell’età evolutiva.
Il film è francese ed è uscito nel 2014 per la regia di Eric Lartigau. Ha riscosso un grande successo di pubblico e della critica. E’ stato infatti vincitore del premio del pubblico al Sarlat Festival nel novembre 2014. Inoltre la protagonista, Louane Emer cantante e attrice, scoperta dal regista tra i finalisti dell’edizione francese di The Voice, è stata premiata come migliore promessa femminile nel 2015 per il Premio César, un importante riconoscimento della filmografia francese.
Ambientato in Francia, nelle campagne della Loira, ci conduce nelle vicende della famiglia Bélier, i cui membri si dedicano all’allevamento e alla produzione di formaggi. La famiglia Bélier è un po’ particolare: madre, padre, e figlio alle soglie dell’adolescenza, sono sordomuti. Paula, la figlia maggiore, adolescente, invece è sana, dunque, in famiglia, ritenuta “diversa”.
E’ interessante proprio questa prospettiva, poco esplorata sia in ambito scientifico che artistico: quali sono i vissuti del figlio o fratello sano in una famiglia in cui è presente la disabilità soprattutto dei genitori? Il tema è trattato con molta delicatezza e spesso con sfumature divertenti.
I genitori di Paula hanno codici comuni che rinforzano la loro identità e garantiscono la continuità la vicinanza, legata anche alla specificità del linguaggio dei segni che prevede il contatto visivo e, dunque, la riduzione delle distanze fisiche Paula pone, invece, il tema della “diversità”, della differenza, della separatezza, di una temuta distanza. La mamma di Paula, in un momento clou della vicenda, ricorda di aver pianto disperata quando venne informata delle buone condizioni di salute della bambina alla nascita… Il marito l’aveva consolata dicendole che forse sarebbe stata sordomuta nell’anima….
Ma a parte questo passaggio un po’ paradossale e ironico, che viene alla luce in un momento particolarmente difficile della vicenda, molto rievocativo della prima separazione della nascita, il tema che viene sviluppato nel film riguarda i ruoli, in questa famiglia così particolare, e l’impatto dell’adolescenza di Paula.
Per lei svincolarsi dalla dipendenza dai genitori e trovare la propria identità, assumono caratteristiche specifiche. Infatti sono per lo più i genitori ad essere dipendenti da lei. Paula è abituata, da sempre, a prestare le proprie orecchie e la propria voce ai familiari. Media i loro rapporti sociali, anche nel momento particolare in cui il padre decide di candidarsi come sindaco del paese senza avere, forse, la consapevolezza dei propri limiti e delle difficoltà del ruolo.
Il tema della voce viene sviluppato in tutto il film e mi sembra che si possa leggere sia in maniera concreta ( che metaforica, pensando alle dinamiche familiari e all’adolescenza in particolare.
Gli adolescenti sono impegnati nella ricerca della propria identità e per farlo iniziano ad abbandonare la voce dei genitori, a contrastarne le leggi, lo stile, per ricercare la propria voce, dare voce, appunto, ai propri nuovi vissuti, organizzarli, condividerli con i coetanei, integrando il nuovo corpo sessuato. Paula ha un compito particolarmente difficile poiché per lei appropriarsi della propria voce implica un cambio di posizione più complesso nei confronti dei genitori. Districarsi nelle maglie di una relazione in cui lei parla per i genitori, o si adatta ai loro codici, raggiungere la consapevolezza di poter avere una voce propria non solo per esprimersi ma anche per portare alla luce il suo talento musicale.
Paula frequenta la scuola, si ritrova in un coro diretto da un maestro dalle parvenze un po’ bizzarre, ma molto attento ai suoi allievi, che cerca di vitalizzare con il canto. Appare goffa, inibita tra i coetanei e la sua voce è debole, incerta; sembra non conoscerla. Il maestro però intuisce, per alcuni segnali, che solo lui può cogliere, che Paula ha un potenziale nascosto e che deve solo trovare la possibilità e il coraggio di esprimerlo e di viverne le conseguenze. Deve trovare la sua voce, viverla con piacere, integrando emozioni sentimenti e corporeità. Ciò potrà rendere visibile il suo talento.
Scoprire la voce, nell’esperienza con il proprio maestro di musica, è un tutt’uno con la scoperta del corpo, dell’amore e della sessualità. Il maestro sollecita i suoi allievi, e in particolare Paula e un suo compagno con il quale si è creato un rapporto di feeling e competizione, a provare a cantare una canzone dai contenuti forti e passionali, Je Vais T’Aimer, di Michel Sardou, autore preferito dal maestro, ballando in coppia. Esperienza difficile, forte, fonte di timori esitazioni, vergogna. Molto significativo il momento in cui i due, ragazzi sono alle prese, da soli, con le prove e si devono districare tra emozione ed eccitazione. Ma proprio quella circostanza, che comporterà per entrambi e per la famiglia di Paula, una “tempesta emotiva”, che rievoca proprio l’inizio dell’adolescenza, si rivelerà, nel tempo, la chiave di accesso ad una nuova dimensione più vitale.
Il maestro di musica, sempre più convinto dell’unicità della voce di Paula, le propone di prepararla per presentarsi a Parigi ad un provino di selezione per entrare a far parte di un prestigioso coro. Paula inizia a crederci, ma deve andare a Parigi e, se andrà bene, trasferirsi lì per qualche mese.
Ora l’intera famiglia va in crisi. Paula tenta di introdurre un cambiamento. E’ cresciuta, vuole vivere, ma trova i genitori sconvolti, arrabbiati, preoccupati, delusi. Chi darà loro la voce? Come è possibile immaginare qualcosa di diverso da una continuità già prestabilita? Paula vacilla, il dolore dei genitori la fa ora arrabbiare ora sentire in colpa, infine rinuncia. Dopo una esibizione scolastica, però, in cui Paula e il suo compagno si esibiscono in coppia, riscuotendo un grande successo, cantando la tanto provata e dolce canzone d’amore e passione, il padre le chiede di poter comprendere meglio cosa ha cantato. Gli arriverà l’intensità delle emozioni di Paula. Ora comprende la figlia e la potrà sostenere nella sua scelta di andare a competere a Parigi.
Ci avviciniamo al finale, intenso e commovente che ci mostra Paula intenta nella sua esibizione. Canterà ancora un brano Michel Sardou, Je Vole . “Miei cari genitori vi amo ma vado via, vado via …non fuggo volo … capitemi bene non fuggo volo … senza fumo senza alcool, vi amo vado via … non avrete più figli stasera … è bizzarra questa gabbia che mi blocca il petto non poso respirare mi impedisce di cantare ….
Questo momento, al di là della commozione, sembra rappresentare, in maniera poetica, il travaglio di genitori e adolescenti alle prese con la crescita e le separazioni.
Solo dopo aver potuto scoprire e usare la sua voce per sé, e non per rispondere ad un mandato della famiglia, Paula troverà il modo di integrare le sue “due anime”. Ma il finale va gustato senza ulteriori anticipazioni …
Il momento mi rimanda a quelli in cui, come psicoterapeuti percepiamo, dopo tanta fatica, nostra e dei pazienti stessi, che i bambini, o i ragazzi, iniziano ad appropriarsi della propria vita, nella quale avventurarsi con creatività, e i genitori, più consapevoli dei loro ruoli di adulti e in contatto con le proprie ferite, iniziano a non chiedere più a figli di curarle.
Vorrei aggiungere una riflessione ulteriore sulla sofferenza ‘silente’ di alcuni bambini e adolescenti di chi, cioè, ha imparato precocemente a tacere, soprattutto quando la sofferenza di uno o più familiari ha assunto colori e forme più marcati. Silenzi, adattamenti precoci, crescite troppo lineari, in questi casi possono avere la funzione di proteggere i membri della famiglia più bisognosi, ma vengono pagate proprio con un costo poco visibile, silente, per l’appunto: quello di un sacrificio della parte più genuina del Sé, di una perdita di spontaneità, di un’attenzione eccessiva allo sguardo e al giudizio degli altri, che mina alle basi l’autostima.
Si tratta di quei “piccoli ometti” o “ donnine” che spesso gratificano e sostengono i genitori o aiutano le maestre a scuola nei loro compiti. Spesso vengono descritti così: “non si vede e non si sente…”. Per loro spesso può essere vitale l’incontro con un “maestro del coro” che li confronti anche, e finalmente, con la parte fragile del Sé, che ha bisogno di essere vista, nutrita e accompagnata attraverso prove e fallimenti.
E, ancora, nel nostro tempo dei social, penso a quanti bambini vengono spinti da genitori certamente in buona fede, a esibirsi in prestazioni che poco hanno della creatività e della giocosità dell’infanzia, e molto del desiderio degli adulti, al quale si adattano, come sanno fare i bambini, gratificandoli e sostenendoli nelle loro fragilità, poco visibili, ma non per questo meno bisognose di risposte.
L’espressione artistica, è tutt’altro che compiacente, anzi, costituisce, specie per i “Sé silenti”, una grande opportunità di nascita o rinascita.
La voce, la musica, la scrittura, l’arte pittorica, sono spesso i mezzi attraverso i quali prendono forma, si intrecciano infatti, esperienze di unioni e separazioni. Winnicott ci insegna che gli spazi della creatività, qualunque modalità essa assuma, a partire dal gioco, sono quelli in cui ogni essere umano può sperimentare l’illusione infantile di essere creatore del mondo a sua misura, illusione dunque che unisce, non differenzia il bambino dal mondo e dai genitori, e tracce della disillusione, cioè dei limiti, dei confini, delle differenze, e delle distanze necessarie, perché bambini, adolescenti e adulti possano ascoltare se stessi, scoprirsi e usare la creatività come un ponte tra sé e gli altri.