Come, quanto e perché allattare?
“Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me di solito ciò che il lattante vede è se stesso”. Il rispecchiamento nel viso materno, cioè la possibilità di conoscere se stesso, cosi come ci ha insegnato un grande psicoanalista e studioso dei bambini, Winnicott, è fondamentale per il bambino perché, a partire dall’esperienza di essere visto dalla propria madre, prenderà avvio lo sviluppo della capacità di cercare e guardare creativamente il mondo.
L’allattamento riveste un ruolo centrale nella vita del bambino.
La soddisfazione attraverso il cibo costituisce la primissima esperienza di gratificazione. Ma fin dal principio il nutrire si riveste di significati molteplici che vanno ben oltre il puro bisogno/soddisfacimento biologico del nutrimento, per veicolare bisogni di grande valenza evolutiva e affettiva. Il rapporto del bambino con il seno non è solo il rapporto con il cibo, ma è il rapporto unico con la figura primaria, fonte di nutrimento fisico, emotivo, mentale.
Il passaggio dallo spazio uterino allo spazio nuovo illimitato espone il bambino ad un cambiamento radicale: non è più contenuto e tenuto fisicamente e ha bisogno di un nuovo sostegno per non sperimentare un vissuto di perdita troppo forte, rappresentabile con la paura di cadere nel vuoto. Ecco allora che il lattante può trovare rassicurazione nel sentire di essere un tutt’uno con il corpo della mamma che lo nutre. Durante l’allattamento, al seno o con il biberon, il neonato infatti non solo si alimenta e sperimenta la sensazione di “pieno” e di appagamento, ma si sente anche contenuto tra le braccia della mamma, con il suo odore familiare, con il calore del suo corpo, con gli sguardi e le parole che creano uno scambio verbale e corporeo. Il seno rappresenta cosi il primo contatto del bambino con il mondo esterno e, attraverso di esso, il bambino crea il suo primo legame significativo che lo aiuterà a non sentirsi solo.
Nei primi mesi di vita, il neonato affronta esperienze emotive plurime, ma è ancora sprovvisto della capacità psichica che gli permette di tollerare e gestire autonomamente tali emozioni, per cui si ritrova a vivere le esperienze nel corpo come un insieme caotico di impulsi e sensazioni. I suoi bisogni primari corporei hanno un equivalente mentale, che il bambino non sa ancora decifrare. Per apprendere questa nuova capacità, avrà bisogno della propria madre, la quale presta al figlio la propria mente (e la propria voce) per tradurre i molteplici segnali corporei del e nel bambino in significati differenti. Pian piano il bambino imparerà importanti lezioni: i sentimenti possono essere governati, la fame può essere soddisfatta, la frustrazione tollerata, e le novità accolte. La percezione di essere nutrito e accudito con amore porta il bambino a sperimentare che esiste una presenza buona esterna che soddisfa i suoi bisogni, che lo ama e lo rassicura. E, attraverso questa buona relazione con la figura di accudimento e grazie alla funzione di decodifica degli stati emotivi che essa svolge, il lattante può iniziare a riconoscere, differenziare e attribuire significato alle proprie emozioni.
Gradualmente la diade madre-bambino trova uno specifico ritmo, una sorta di sintonizzazione e sincronizzazione, che permetterà al bambino di poter pensare all’esperienza buona e gratificante di soddisfacimento dei propri bisogni, sperimentata nell’allattamento, anche in assenza del seno e della mamma. Questa piccola/grande conquista permette al bambino di affrontare i sentimenti di mancanza e di attesa, poiché sarà capace di rimanere in contatto con l’esperienza buona e gratificante precedentemente vissuta e ormai memorizzata. Il bambino imparerà a pensare da sé.
In questa fase, piccoli sfasamenti o incomprensioni nell’incontro madre-bambino sono possibili e riparabili…
In qualche caso però può accadere che la situazione sia più intricata e allora si può presentare un disagio importante. Per esempio, quando il corpo della mamma è lì e trasmette il nutrimento, ma la sua mente, la sua attenzione è da tutt’altra parte. L’allattamento rischia allora col trasformarsi in un atto meccanico, funzionale al cibo e basta, snaturato della sua vera e profonda essenza. Per alcune mamme può essere difficile mettere insieme la cura corporea, il nutrimento e l’aspetto affettivo, specie se sono molto impegnate ad affrontare situazioni emotive difficili (il proprio stato depressivo, un lutto recente, un parto particolarmente difficile, etc.).
In altri casi, invece, la diade madre-bambino sembra non poter uscire da un allattamento troppo prolungato nel tempo, che può addirittura esitare in un blocco del processo evolutivo. Il seno diviene lo strumento per sedare il bambino, per passivizzarlo, invece di incoraggiarlo nella sua attività. Alcune mamme continuano ad offrire al proprio bambino una modalità più regressiva di contatto, proponendo ancora l’illusione di un seno che è di proprietà del bambino, ma che in realtà è un seno ormai senza latte e che svolge solo una funzione consolatoria. Un seno così rischia di inibire la sana curiosità del bambino e finisce con rallentare di crescita.
Il ritmo dell’andare e venire del seno, dell’andare e venire della mamma, allena il bambino a sperimentare piccole frustrazioni che struttureranno la sua capacità di affrontare i transiti successivi che la vita gli presenterà. Un ambiente sufficientemente adeguato è un ambiente che facilita questi transiti.
Cosi come è necessario che madre e figlio creino un legame e una dipendenza forte e sicura, cosi è altrettanto essenziale che ad un certo punto tra i due si avvii la separazione. Perché ciò accada senza troppe difficoltà è molto importante non solo che la mamma si senta pronta ma che ci sia un supporto valido in questo processo del padre che può costituire fonte per il bambino di nuove esperienze e supporto per la madre.
Cosa prova un bambino quando compaiono i “dentini da latte”?
Ad un certo punto della crescita, nella bocca dei bambini accade qualcosa di misterioso: spuntano i denti. La fase dell’eruzione dentaria costituisce uno dei momenti più importanti nella vita di un bambino e, per quanto siano chiamati “dentini da latte” rappresenta un fondamentale passaggio separativo. La dentizione porta con sé particolari significati: i denti duri rompono la gengiva, procurano dolore e, nel contempo, i denti mordono, distruggono il cibo. Se il latte rappresentava la fusione indisturbata con la madre, l’irruzione dentaria rompe questo stato di beatitudine. Quando le cose vanno bene, ad un primo turbamento fa seguito una progressiva scoperta di nuove e inaspettate sensazioni. Vediamo bambini che piacevolmente esplorano l’interno della propria bocca e bambini che con insistenza mordono e distruggono oggetti. L’esperienza del mordere, del masticare permette al bambino di dirottare la naturale pulsione orale aggressiva verso altre mete, altri oggetti inanimati e di salvare così il seno, la madre, l’oggetto del proprio amore. Quando però, per una qualche ragione, l’ambiente reattivamente nega o blocca la libera espressione della spontanea e vitale aggressività e voracità del bambino, allora questa pulsione orale non può essere scaricata e soddisfatta, e soprattutto sperimentata. Nelle fantasie del bambino, delle quali certo non è consapevole, questa pulsione potrebbe essere sentita come qualcosa di pericoloso o mostruoso e ogni qual volta ne farà esperienza dentro di sé, la vivrà come una minaccia all’unione con la madre e alla stessa sopravvivenza della figura di attaccamento (come se mordere e masticare possa distruggere la fonte stessa del nutrimento e come una minaccia) o verso se stesso.
E’ importante ricordare che l’aggressività nel bambino è al servizio del principio di piacere, è sana ed è propedeutica alla crescita; ben lontana quindi dal desiderio di attaccare e danneggiare l’altro. Il bambino che può liberamente conoscere e sperimentare la propria aggressività orale, supportato e contenuto dalle figure genitoriali, sarà un bambino capace di integrare e modulare questa aggressività nella crescita futura.
Come ci si accorge che il bambino è pronto per avviare lo svezzamento?
Come abbiamo visto, l’atto dell’alimentazione, più di ogni altra funzione corporea, è un’esperienza sensoriale, mentale ed emotiva. La fase dello svezzamento è un momento evolutivo di grande importanza, nel quale entrano in gioco dinamiche sotterranee che possono favorirne un buon avvio o, al contrario, ostacolarlo. Ad un certo punto, il neonato non è più un neonato e non lo sarà mai più. Lo svezzamento dal seno (o dal biberon) è un progressivo passaggio separativo, l’avvio per successive separazioni, in cui il cibo-altro, il cibo-estraneo, il mondo esterno, viene presentato per la prima volta al bambino e gli si chiede di accettarlo e portarlo dentro di sé. Allora se il dolce, il liquido, il morbido hanno il gusto delle prime esperienze al seno e regressivamente ricollegano alla fusione con la madre; il salato, il duro, il solido hanno il sapore sconosciuto della separazione dalla madre e dell’incontro con la realtà esterna. Transiti fisiologici, ma non indolore per ogni bambino.
Non esiste una “ricetta” standard, valida per tutti i bambini e le loro mamme. Tuttavia possiamo evidenziare degli aspetti fondamentali da tenere a mente e non trascurare.
E’ basilare rispettare una gradualità nella presentazione dei cibi diversi e non conosciuti al bambino, in modo cioè da presentargli una realtà esterna ed estranea a piccole dosi. Altrimenti, si corre il rischio che l’esperienza della separazione gli sembrerà troppo difficile da tollerare. Suscitare la curiosità e l’interesse del bambino verso il cibo gli permette di costruire fantasie sul dove va a finire questo cibo che una volta ingerito, sparisce e non c’è più. Controllare cosa entra e cosa esce dal proprio corpo è una modalità di scambio tra il prima e il dopo, il dentro e il fuori, il sé e l’altro; è un canale di comunicazione tra bambino e genitori e ambiente; è un modo per sentire di avere un ruolo attivo e partecipe nell’intero processo.
Gradualmente queste operazione, tra corpo e mente, permetteranno al bambino di elaborare una continuità rassicurante e di integrare un cibo-altro dentro di sé.Altrettanto importante è permettere al bambino di padroneggiare il suo rapporto con il cibo: coinvolgerlo nella sua preparazione, sminuzzarlo, toccarlo, averlo tra le mani (e nella mente) così da poterlo conoscere, è di grande aiuto. Attraverso la ripetizione, che avviene nel gioco, il bambino cerca di integrare ciò di cui ha paura in qualcosa di conosciuto, quindi meno spaventoso. Ecco perché è così importante coinvolgere i bambini nel “gioco della cucina”, nel cucinare, in quanto così gli si offre la possibilità di creare-ricreare, conoscere-riconoscere il cibo nuovo, estraneo.
Purtroppo, qualche volta, qualcosa sembra ostacolare e compromettere il dispiegarsi di un processo armonico e strutturante …
Alcuni bambini si ritrovano forzati dalla volontà degli adulti di essere prestamente svezzati, in modo frettoloso, come fosse un passaggio automatico. Per certi bambini, questo accade in un tempo in cui loro non si sentono ancora pronti. L’assenza della gradualità nel processo separativo può rendere l’esperienza dello svezzamento improvviso, brusco, traumatico, e il cibo finisce col diventare l’oggetto che intrude, che soffoca, che separa e che viene dunque a colorarsi di elementi che generano ansia e paure. (persecutori e spaventosi.)
“Non mangia nulla” oppure “Vuole solo latte” o “Seleziona tutto il cibo” e ancora “Serra la bocca” sono le parole che qualche volta i genitori lamentano come fonte di preoccupazione e agitazione. I bambini, anche molto piccoli, sono alle prese con esperienze reali e immaginarie in continuo cambiamento. Lo svezzamento introduce una nuova prospettiva per il bambino e per gli adulti. Il genitore che svezza e dice dei no all’allattamento può aspettarsi che il bambino protesti, che rifiuti il nuovo cibo, che lo immagini cattivo. Il bambino può sentire il nuovo cibo come un sostituto che lo addolora o che lo lascia disorientato. Ma il più delle volte tutto accade in maniera naturale soprattutto se le tensioni vengono messe in bilancio e trasformate da giochi o piccole strategie che permetteranno al bambino di godersi i nuovi cibi.
Quando le cose sono più difficili può essere che l’ambivalenza o l’inibizione verso il cibo sia la risultante di emozioni conflittuali verso la madre reale e l’ambiente familiare, o la sua immagine interna, conflitti trasferiti sul cibo che ne è la rappresentazione simbolica.
Altre volte accade che un evento più o meno traumatico produca una brusca interruzione dell’alimentazione del bambino precedentemente avviata; allora può succedere che il bambino rifiuti categoricamente sia cibi solidi che alimenti liquidi per tornare regressivamente al solo latte. Ogni caso è unico e specifico, tuttavia è comune in questi bambini una forte oppositività nei confronti di chi tenti di farli mangiare.
Un altro elemento di fondamentale importanza è rappresentato dal clima in cui il bambino mangia; clima costituito da rituali, preparativi, parole che accompagnano il pasto. Il rituale aiuta il bambino nell’attesa del pasto in preparazione, e facilita il successivo gustare, digerire ed elaborare l’esperienza della nutrizione.
Se l’attesa è troppo lunga il bambino vive una frustrazione molto intensa e nella mente del bambino il cibo finisce per diventare qualcosa di cattivo; se il rituale è caotico, iperinvestito, o assente il cibo può risultare indigesto. Il cibo, dunque, veicola ciò di cui l’ambiente è portatore, a volte addirittura può veicolare un eccesso di tensione nella relazione sentita come qualcosa che può fare male come un cibo indigesto o pericoloso. Nel cibo possono confluire affetti contaminati. Così il cibo diventa, nella fantasia del bambino, la mela avvelenata della favola di Biancaneve.
Quando è necessario consultare uno specialista?
L’età d’insorgenza dei disturbi alimentari si sta abbassando notevolmente, tanto che l’esordio può presentarsi già nella prima infanzia. A seconda della persistenza nel tempo o della gravità delle alterazioni nelle condotte alimentari si può parlare di disagio o di vero e proprio disturbo alimentare.
In sintesi, andiamo dalle bizzarrie alimentari, inappetenza, rigurgito, selettività alimentare, (per esempio il mangiare solo cibi di un certo colore), al rifiuto totale del cibo o iperfagia. Con o senza alterazioni associate al sonno, alla scuola, alle relazioni con i pari o con gli adulti.
E’ chiaro ormai quanto, fin dall’inizio, la dimensione alimentare rappresenti per il bambino un importante intreccio tra l’aspetto nutritivo e quello affettivo-relazionale con la figura d’accudimento prima, e con tutto l’ambiente familiare dopo.
Quindi l’atto nutritivo diviene teatro del complesso mondo interno del bambino e il suo malessere può spesso esprimersi proprio attraverso il comportamento alimentare.
La comparsa di un disagio nella condotta alimentare del bambino potrebbe ad esempio essere l’espressione transitoria di una difficoltà nell’affrontare un certo momento della crescita, come il processo di separazione dalla madre, l’inserimento scolastico, la nascita di un fratellino, o il clima teso di un ambiente familiare.
In più, il nutrimento è pervaso dalla pulsione orale e dall’aggressività dell’oralità e tutto questo circola inconsapevolmente nella relazione madre-bambino nelle pratiche alimentari. Cosi può accadere che la relazione alimentare diventi il territorio di esperienze pulsionali ingovernabili, un troppo pieno di contenuti indigesti tanto della madre quanto del bambino. Allora la difficoltà o il rifiuto dell’alimentazione diventa l’unica reazione difensiva che il bambino riesce ad attuare nell’intento di proteggersi dall’impatto con l’ambiente.
Quando si presenta questo scenario, diventa necessario consultare uno psicoterapeuta infantile che possa aiutare bambino e genitore ad uscire dallo spazio di concretezza del problema alimentare, per andare oltre la difficoltà. Un aiuto professionale che possa aiutare il bambino a procedere in avanti verso la crescita senza rischiare di “scivolare all’indietro” precipitando in un blocco evolutivo. Nel contempo un aiuto che possa sostenere e rinforzare l’adulto nella sua funzione di accudimento.
Un genitore eccessivamente preoccupato solo se il bambino mangia o non mangia o che cosa mangia rischia di ridurre lo scambio nutritivo al semplice scambio di cibo materiale e induce nel piccolo un dubbio sull’amore e sul riconoscimento di sé come persona che esprime un bisogno più complesso non riducibile ad un corpo da riempire.
Ancora Winnicott ha usato un’espressione che rende bene l’idea del valore simbolico che attiene l’alimentazione “Il bambino dubbioso e sospettoso verso il cibo usa il dubbio sul cibo per nascondere il dubbio sull’amore”.
E il bambino lo dice come può e come sa. Se sappiamo ascoltare, sarà possibile aiutarlo nella sua crescita.