di Barbara Berardi
Euphoria è una serie televisiva scritta e diretta da Sam Levinson, basata sull’omonima miniserie israeliana ideata da Ron Leshem. Le due stagioni sono andate in onda negli USA sul canale HBO e in Italia su Sky tra il 2019 e il 2022.
La storia è ambientata in epoca pre-covid negli Stati Uniti, in un luogo non definito, probabilmente una piccola zona residenziale di provincia, non distante da una grande città.
La voce narrante è di Rue, una liceale che è appena uscita da una clinica di riabilitazione dove ha trascorso il periodo estivo, dopo aver rischiato la vita per un’overdose di droghe e farmaci.
Attorno a lei si snodano le vicende di altri personaggi, tutti adolescenti con le relative famiglie, ma soprattutto delle cinque amiche storiche, a cui si aggiungerà Jules (Hunter Schafer), appena trasferita con il papà. Jules è transessuale, e strutturerà da subito un legame importante con la nostra protagonista.
Colpisce, sin dai primissimi episodi, la crudezza delle esperienze e delle emozioni che i personaggi vivono e raccontano, senza mezzi termini.
L’attrazione di Rue, interpretata da una intensa Zendaya, per le droghe e per l’autolesionismo, è una vera e propria discesa agli inferi dove niente ci è risparmiato.
Le amiche di Rue sono ragazze appariscenti, molto truccate e sessualmente disinibite, alle prese con la battaglia per la ricerca della propria identità: l’uso del corpo, dei social, il rapporto con il maschile, spesso aggravato da radici tossiche e possessive, sono i territori nei quali si ingaggiano confronti e lotte, e dove le relazioni nascono e muoiono nel giro di poche puntate. Le storie d’amore sembrano essere o totalizzanti e soffocanti oppure invece solo accennate e mal vissute, come spesso accade effettivamente nella realtà, dove in adolescenza quell’amicizia sembra essere fondamentale, per poi invece velocemente scivolare quasi inosservata.
L’elemento che più colpisce di questa serie è l’aspetto angosciante e angosciato che quasi ogni personaggio esprime, tutti hanno storie molto difficili, vissuti famigliari laddove non concretamente traumatizzanti, comunque connotati da una forma di violenza rabbiosa che prima o poi attraversa le relazioni affettive e sociali. E’ una specie di mannaia, un destino con cui bisogna fare i conti e di cui nessuno sembra più stupirsi.
Lo spettatore è quindi avviluppato suo malgrado in queste dinamiche, si identifica con gli adolescenti e, proprio come loro, assiste impotente, di fronte all’incapacità del mondo adulto di attutire i colpi di esperienze troppo forti per i loro figli che devono abituarsi precocemente a fare i conti con una società e un ambiente così crudele.
E’ questo il nucleo centrale intorno a cui ruota tutta la serie: in primo piano ci sono gli adolescenti e le loro difficoltà, sullo sfondo un mondo adulto che ha fallito e che non sembra accorgersi di niente. Gli adulti appaiono infatti come irrisolti, adolescenti a loro volta quando non perversi o con vere e proprie tossico-dipendenze, intrappolati in vite non volute.
Winnicott, parlando della funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile si chiede: “Cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me di solito ciò che il lattante vede è sé stesso. In altre parole, la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge .1”
Ecco dunque questo sembra essere il fallimento di quasi tutti gli adulti in Euphoria: non ci sono insegnanti, genitori, allenatori, che non siano stati in qualche modo manchevoli nella capacità di fornire uno sguardo in grado di restituire ai nostri protagonisti il loro potenziale ma anche semplicemente il loro essere. Tutti sono abbandonati a loro stessi fino a che non combinano guai così grandi, che sia cadere in un’overdose o una relazione violenta in cui questo agognato sguardo dell’altro arrivi, ma è quasi sempre non calibrato, non adatto, fuori luogo, ancora una volta fallimentare.
Alla fine della seconda stagione molte trame del passato si sono chiarite per lo spettatore e molti aspetti nascosti dei personaggi più violenti sono usciti allo scoperto.
E’ a questo punto che Lexi (Maude Apatow), amica di sempre di Rue, una delle comprimarie fino a quel momento rimaste sullo sfondo, colei che è sempre presente ma che non reclama mai niente per sé, decide di mettere in piedi uno spettacolo a scuola, che racconti le storie di queste cinque amiche. La rappresentazione teatrale diventa l’occasione, intanto, per narrare e mettere insieme una serie di eventi, per raccontarli nuovamente, e allo stesso tempo fornire la possibilità a tutti gli spettatori, ragazzi e famiglie di potersi rispecchiare, vedersi nello sguardo altrui.
Gradualmente tutti si riconoscono. Qualcuno ne è felice e qualcun altro si sente colpito nel vivo, scoperto, messo alla berlina; altri scappano, altri irrompono sul palcoscenico interrompendo la rappresentazione, altri ancora non si presentano e rimangono bloccati nel ciclo della violenza e degli agìti, a significare che per alcuni è troppo tardi, non c’è possibilità di redenzione. Alla fine, tutto viene portato a termine, tutto viene rivisto, rimasticato, rielaborato, e un applauso finale quasi liberatorio acclama la rappresentazione.
Nella scena conclusiva vediamo Rue che, parlando da sola con l’autrice, regista e amica di sempre Lexi, la ringrazia per averle dato la possibilità, vedendosi rappresentata in scena, di ripensare alla sua vita senza odiarsi. Attraverso il suo sguardo ha potuto capire quanto si sia fatta annientare dal dolore per la precoce morte del padre e la capacità trasformativa della rappresentazione le ha consentito di capire quanto fosse ancora troppo legata al passato.
Il teatro quindi come forma di terapia, la raffigurazione della narrazione e lo sguardo di chi assiste che si incontra con lo sguardo di chi ha realizzato l’opera, fanno apparire all’orizzonte la possibilità di elaborare i traumi e nell’occasione di potersi rivedere, finalmente, riconoscersi e anche perdonarsi.
Non si sa dove ci porterà la terza stagione in programma, se ci mostrerà un tempo di elaborazione e crescita, non solo per questi adolescenti così provati e soli. Tra loro c’è chi sta indicando una strada nuova senza ancora averne coscienza. Non sappiamo ancora se i genitori, in una sorta di meccanismo inverso saranno in grado di farne esperienza e di assumersi finalmente la responsabilità di proteggere le giovani generazioni sia da loro stessi che dalle incapacità del mondo adulto. Per ora non ci è dato di saperlo, ma la speranza è che questa opportunità non passi inosservata e che l’uso di uno sguardo reciproco possa essere la possibilità creativa di un nuovo inizio.
1 Winnicott D. W. (1974) Gioco e realtà Trad.it Armando Editore Roma pag.189