di Valentina Manna
- Cos’è (e cosa non è) un asilo nido?
Un asilo nido è, per definizione, uno spazio educativo che accoglie i bambini e le bambine dai 3 mesi ai 3 anni d’età. Si tratta, certo, di un luogo, fatto di angoli dedicati alle prime “morbide” esperienze pedagogico-didattiche, ma è anche e soprattutto uno spazio di relazioni che il bambino incontra in epoche molto precoci dello sviluppo. Potremmo descriverlo, in termini winnicottiani, come un “ambiente facilitante” per i processi maturativi del bambino. Il concetto di “ambiente” è stato, infatti, introdotto da Winnicott (1971) per fare riferimento all’insieme delle relazioni primarie che il bambino vive precocemente e che sostiene, in lui, la percezione del proprio senso di esistere e di individuarsi come persona. Un ambiente sufficientemente buono è, per Winnicott (1976), appunto, un ambiente facilitante, ovvero in grado di rendere possibile il costante progresso dei processi maturativi del bambino. Ciò significa, per il piccolo, la possibilità di evolversi in modo personale, poiché l’ambiente gli consente di realizzare il proprio potenziale innato e così facilita la sua tendenza naturale a crescere.
Tra le relazioni che sempre più frequentemente i bambini sperimentano e che si sommano alle esperienze costitutive del proprio ambiente di vita c’è l’asilo nido. Da questo punto di vista, anche se storicamente esso nasce all’interno delle politiche di conciliazione tra lavoro e cura come strumento di supporto al work-family balance – ovvero a sostegno dei genitori che lavorano – , oggi sono sempre più numerose le famiglie che ne riconoscono la funzione speciale che lo differenzia dagli altri spazi aggregativi a misura di bambino: il nido non fa parte della scuola dell’obbligo, non è una ludoteca né tantomeno un baby parking. Si configura, difatti, come un luogo di cura fisica ed emozionale: accoglie i bisogni fisiologici ed affettivi dei più piccoli, così divenendo un ambiente in senso winnicottiano; uno spazio di crescita che contiene, collocato tra la casa e il posto dei bimbi grandi, prima finestra sul mondo e sul gruppo dei pari.
2. Perché iscrivere il bambino/a al nido?
Ad oggi, numerosi studi dimostrano che i bambini che frequentano gli spazi educativi in epoche precoci sviluppano una maggiore autostima, presentano capacità relazionali più raffinate e minore tendenza all’abbandono scolastico. Sembrano buone ragioni per iscrivere un bambino all’asilo nido! Ma qual è il perché di questi dati? Cosa è che avviene al nido e che può traghettare il bambino, se adeguatamente sostenuto, verso queste felici acquisizioni?
L’ambiente nido offre un contributo originale al processo di crescita dei bambini, nella misura in cui, attraverso le sue caratteristiche compresenti di contenimento e stimolazione, sollecita i primi scambi relazionali, sostenendo il difficile compito dell’esistenza del bambino come uno nel gruppo dei bambini come molti, parimenti significativi, e diversi da sé. Se seguiamo ancora un po’ il pensiero di Winnicott (1963), scopriamo infatti che «nel corso delle prime settimane, mesi e anni [di vita] il bambino diventa capace di stabilire rapporti con gli oggetti, diventa padrone del proprio corpo e del suo funzionamento, sperimenta una sensazione di IO SONO ed è pronto ad incontrare tutti gli estranei. Questi sviluppi nell’individuo, basati sui processi maturativi, costituiscono la salute mentale». Il nido, offrendosi come primo spazio di socializzazione esterno alla famiglia in senso stretto, promuove questo incontro evolutivo del bambino con l’estraneo, sostenendo lo sviluppo di quel senso di identità personale che lo aiuta a collocarsi gradualmente nel mondo, spazio in cui non è più (il) solo eppure si scopre unico. Per queste ragioni, l’inserimento al nido appare particolarmente consigliato e utile in presenza di problematiche connesse ai processi di separazione dalle figure genitoriali, tendenza al ritiro, ritardi nello sviluppo linguistico, cognitivo e sociale: tutti processi che vivere il nido, con le sue sperimentazioni sensoriali e di gioco, può contribuire a riavviare.
3. Qual è l’età migliore per frequentare il nido?
Ci si chiede spesso qual è il momento giusto per iscrivere un bambino al nido, ovvero, per “separarsi”. Quanto spesso sentiamo dire ai genitori che il bambino sembra “troppo piccolo per essere lasciato”, o più semplicemente che “non me la sento ancora” …? Non si può dire che esista un momento giusto in assoluto: il momento giusto è quello in cui la famiglia nella sua interezza – bambino, genitori e perché no, fratelli e nonni – si sente “pronta”. Nei fatti, il momento giusto è quello in cui il bisogno del bambino incontra la risposta dell’altro al suo bisogno: parafrasando, ancora, Winnicott, qualsiasi buon incontro avviene “quando il bambino è pronto a crearlo e al momento giusto”. Ciò presuppone la capacità dell’adulto di riconoscere un bisogno evolutivo (nel piccolo, nella diade genitore-bambino, nella famiglia) e, spesso, di essere sostenuto nel trovare una corrispondenza tra il bisogno e il proprio desiderio genitoriale di soddisfarlo in un modo sufficientemente adeguato. Inoltre, presuppone una certa considerazione del “fattore tempo”, e cioè il tenere a mente che ad alcuni specifici momenti della crescita del bambino corrisponde – in linea di massima – lo sviluppo di specifiche competenze chiave, che vanno sostenute, monitorate e…affrontate se incontrano degli ostacoli ad emergere.
La cornice temporale in cui si svolge la frequenza del nido copre proprio quell’epoca dello sviluppo cosiddetta “preverbale” (0-3 anni), in cui si compiono i processi fondamentali nella costituzione della personalità di un bambino che Winnicott ha definito maturativi e che costituiscono il suo sviluppo emozionale primario: l’integrazione del bambino in unità (che comporta l’acquisizione di una propria identità personale riunendo i frammenti di sé in un’immagine unica), la personalizzazione (ossia sviluppare il sentimento che la propria persona abita un corpo) e la relazione oggettuale (il riconoscimento dell’esistenza di altri separati da sé, insieme all’acquisizione della fiducia nel mondo esterno, alla disponibilità allo scambio e alla conoscenza dell’altro). Alcune tappe all’interno di questi processi segnalano il raggiungimento di traguardi significativi: lo svezzamento, l’acquisizione della capacità di camminare, le prime lallazioni o l’imparare a dormire da solo. La loro eventuale coincidenza temporale con l’ingresso al nido costituisce un fattore significativo da valutare per tenere conto delle sfide evolutive specifiche che il bambino sta affrontando, che influenzeranno il suo modo di vivere l’integrazione nell’ambiente nido e che, a sua volta, ne saranno influenzate. È, per questo, fondamentale che esista un dialogo costante tra la famiglia e il personale educativo che consenta di fotografare la storia evolutiva del bambino e di sostenerne al meglio la progressione, nel momento specifico in cui il piccolo incontra il nido, allo scopo di renderlo il “momento giusto”. Non a caso, infatti, Winnicott ci ricorda che «il processo maturativo si effettua in un dato bambino solamente in quanto c’è un ambiente facilitante. Lo studio dell’ambiente facilitante è altrettanto importante quanto lo studio del processo maturativo individuale. La caratteristica di tale ambiente è l’adattamento […]. Quando esso è sufficientemente buono […] la personalità dell’infante acquisisce un certo grado di integrazione». Con ciò intendo ricordare che non è importante il momento in cui il bambino viene iscritto al nido, ma la capacità di adattamento dell’ambiente nido (e dell’ambiente famiglia) a quello specifico momento della sua crescita.
4. Come gestire i momenti di separazione e riunione?
Si tratta, probabilmente, dei momenti più difficili sia per il genitore che per il bambino: come separarsi, quando il piccolo viene “lasciato” tra le braccia delle educatrici, e come ritrovarsi a giornata terminata, quando i genitori tornano a prenderlo? Ciascun bambino e ciascun genitore reagiscono diversamente al momento della separazione e a quello della riunione: ogni diade (mamma-bambino/a – papà-bambino/a ma anche nonna/o-bambino/a!) ha un suo modo unico di vivere questi momenti delicati, che è legato alla storia relazionale dei due, alle paure che accompagnano il “compito” di lasciarsi, ai desideri e ai bisogni di ciascuno. Se il bambino, ad es., può aver bisogno di sentirsi non dimenticato né abbandonato dal genitore e accolto dal personale del nido, il genitore potrebbe aver bisogno di non sentirsi colpevole nel lasciare il figlio né sostituito dall’educatrice e, anzi, riconosciuto e perdonato quando ci si ritrova. È importante saper riconoscere questi movimenti interni (e viverli senza sensi di colpa!) per individuare con il personale educativo la strategia migliore da adottare.
Affinché un buon incontro avvenga, è buona regola per il genitore non sparire all’improvviso dallo sguardo del bambino, ma, al contrario, accompagnare il momento di passaggio, di “consegna” dalle braccia del genitore alle braccia delle educatrici, comunicando/costruendo la fiducia nella ricomparsa, con frasi semplici e di facile comprensione per i più piccoli (es. “mamma torna presto”, “aspettami”, “ci sono anche quando non mi vedi”). Può essere utile lasciare che il bambino porti con sé al nido un oggetto transizionale (un gioco preferito, un oggetto morbido che ricordi le relazioni primarie, un elemento al quale il bambino abitualmente ricorre per consolarsi o per tenere stretta a sé la madre nella sua fantasia) o che instauri un rituale transizionale (es. salutare il genitore dietro un vetro, posare insieme lo zainetto, lasciarsi accompagnare fin sulla sediolina) attraverso il quale la separazione avvenga con gradualità e in modo condiviso. Ciò renderà, giorno per giorno, più semplice comprenderla all’interno della relazione e, dunque, accettarla. Similarmente, è utile per il bambino che il genitore accolga con amorevolezza, e senza fare rappresaglie, la sua reazione al ritorno del caregiver, cercando di tradurre in parole la sua eventuale rabbia al momento della riunione o l’atteggiamento di tendenziale evitamento/indifferenza: si tratta di mezzi usuali attraverso i quali i più piccoli spesso comunicano il dispiacere che aveva accompagnato la separazione, la frustrazione sperimentata ma anche la mascherata gioia nel ritrovare l’oggetto d’amore!
Perché questi processi avvengano con fluidità, ogni asilo nido programma una fase di inserimento: un momento prezioso in cui il bambino e il suo caregiver conoscono insieme l’ambiente nido e, passo dopo passo, per tempi sempre più lunghi, consentono ad esso di farsi spazio, temporaneamente, nella loro relazione. In questo modo è possibile una transizione graduale che consente al nido stesso di acquisire una funzione di accudimento vicariante per un tempo per tutti sempre più sopportabile e godibile.
5. Il rapporto con le educatrici tra fantasia e realtà
Il personale educativo dell’asilo nido – in genere a prevalenza femminile – costituisce una risorsa significativa per la crescita del bambino: si tratta di una relazione continuativa (poiché i bambini trascorrono tutti i giorni diverse ore al giorno con le educatrici/gli educatori) fondata su funzioni affettive che il bambino scopre in adulti diversi dai propri genitori. La qualità di questa esperienza affettiva chiaramente contribuirà a direzionare i suoi processi di crescita: nello specifico, la prontezza con cui saranno accolti i suoi bisogni e la fermezza dei limiti che incontrerà, rafforzeranno i suoi processi di integrazione e, più in generale, il senso di fiducia nei confronti di sé stesso e del mondo.
Il personale educativo svolge, a ben vedere, una funzione vicariante – ma mai pienamente sostitutiva – rispetto alle figure genitoriali: soprattutto per i genitori più fragili, più impauriti e più carenti nell’esercizio del proprio ruolo, è possibile ritrovare nell’educatrice un Io ausiliario con il quale allearsi. Ciò rende possibile un’esperienza di supporto (e, talvolta, riparativa) non solo per il bambino ma per la diade genitore-bambino o per la famiglia nel suo complesso. Non a caso l’asilo nido è percepito spesso, specie dai genitori più bisognosi, come una seconda famiglia, che prosegue l’accudimento del bambino laddove la prima si ferma, e lo completa introducendo nuovi elementi e indicazioni qualche volte sconosciute (si pensi ad es. ai genitori alle prime armi, che non hanno riferimenti familiari o professionali alle spalle o ai contesti socio-economici più svantaggiati).
Eppure, non di rado, il legame tra i genitori e le educatrici/educatori assume una natura ambivalente, colorandosi di fantasie che ne ostacolano la piena maturazione. La fantasia della “maestra cattiva” che può far del male al bambino e di cui non è possibile fidarsi, è forse la più diffusa forma che assume un timore spesso presente nel genitore che “lascia” il bambino all’asilo nido: la sensazione di essere un genitore cattivo, spostata sull’immagine dell’educatrice, in un processo che – semplicisticamente – si può riassumere nella dinamica: “non sono io la cattiva, ma lei!”. Altre volte, riconoscere che il bambino ha instaurato un rapporto positivo e/o intenso con il personale educativo sollecita fantasie di furto o appropriazione indebita da parte dell’educatrice/educatore: in questi casi, può capitare che il genitore possa sentirsi sostituito e disconfermato nel proprio valore (“è più bravo lui/lei di me che sono il papà/la mamma”).
Va qui considerato che l’asilo nido, inevitabilmente, si fa carico di accogliere non solo i bambini, ma l’intera costellazione di fantasie e bisogni delle famiglie che ne costituiscono l’utenza. Come quello tra educatore-bambino, così il rapporto tra genitori e personale educativo si costruisce nel tempo, aggiungendo, giorno dopo giorno, piccoli tasselli di fiducia se ci si concede, da ambo i lati, la possibilità di percepire il rapporto asilo-famiglia come un’alleanza verso un obiettivo condiviso. Ciò consente ad entrambe le parti di restare nella mente del bambino mentre è affidato all’altro, che assume il ruolo di rappresentante pro tempore di chi è assente. Non va dimenticato che buona parte della fiducia che il bambino sarà in grado di nutrire verso gli educatori/educatrici dipenderà dalla fiducia che i genitori stessi sapranno accordare allo sguardo attento di chi segue il bambino di un altro come se fosse anche un po’ suo.
Bellissimo articolo, che bilancia perfettamente i riferimenti teorici e l’esperienza. Uno scritto, a sua volta, “facilitante” che coglie e dissipa le angosce dei genitori. Complimenti.